Addio grande vecchio

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se n’è andato oggi il grande Enzo Bearzot :frowning:

simbolo di un’italia, non solo calcistica, che probabilmente se la passava assai peggio di adesso ma che pure a conti fatti non aveva la gente di merda, non solo calcisticamente, che c’è adesso

pure che da un bel pezzo non si vedeva in giro si sentirà la sua mancanza, soprattutto tra chi si è dimenticato tutto o quasi del suo passato ma mai si potrà dimenticare cosa ha fatto in quel quarto d’ora di quella sera del luglio 1982, all’intervallo di Italia-Germania quando cabrini aveva appena tirato il rigore sui tabelloni pubblicitari :pollanet:

R.i.p.

http://www.repubblica.it/sport/2010/12/22/news/commento_mura-10479130/

IL PERSONAGGIO
Bearzot, la Spagna, Pertini
e quella rabbia per l’inno fischiato

L’allenatore friulano che fece vincere agli azzurri il Mundial '82. “Ricordatemi come una persona per bene”. Se quel gol di Tardelli l’avesse segnato Cruijff, avremmo suonato i violini al calcio totale Il suo gioco offensivo si ispirava al jazz. Aveva assorbito da Rocco la capacità di parlare con l’uomo calciatore. Chiese: “Chi vuol marcare Zico?”. “Io” rispose Gentile
di GIANNI MURA

Un uomo serio. Un uomo onesto. Un uomo leale. Uno che dava e chiedeva rispetto. Un uomo sincero. Un secondo padre (per Zoff, Conti, e anche per Rossi). Un uomo di frontiera.

Un uomo che credeva nell’amicizia e nel sacrificio. Un uomo di sport. Un maestro di vita. Un uomo colto. Un uomo chiuso a riccio(ma neanche tanto). Un uomo aperto (ma solo quando si fidava). Un uomo d’altri tempi, purtroppo sì, ma ancora capace di districarsi a fatica nei nostri. Un uomo in guerra contro la volgarità, il chiasso, il luccicante vuoto, le avvisaglie le aveva viste nella Milano da bere, e il resto sarebbe stato peggio.

Da ieri in Italia c’è un galantuomo di meno, Enzo Bearzot. E’ morto il 21 dicembre, come un altro ct, Vittorio Pozzo, che di mondiali di calcio ne aveva vinti due. Il terzo, per quelli della mia generazione, resta il più bello. Si sapeva che il vecio stava male, prima costretto alle stampelle, poi alla carrozzina, poi al letto. Si era isolato, nel male. Sua moglie Luisa faceva filtrare solo i fedelissimi. Si era isolato già prima, da pensionato felice di godersi i tre nipotini (Rodolfo, Livia, Giulia). Milano era la sua città dal 1951, da quando aveva sposato Luisa, conosciuta sul tram numero 3. Non gli piaceva più, per quel progressivo incattivirsi, per la fretta, la maleducazione in generale e del tifo in particolare.

Qui gli saltava fuori un cruccio, quello di non aver fatto e detto di più contro il becerume crescente, lui che nel ‘90 era stato quasi male dalla rabbia, sentendo fischiare
l’inno dell’Argentina, lui che non sopportava la classica frase da tifoso: "La cosa più bella è vincere un derby su autogol al 92’". “No, la cosa più bella è vincere giocando bene e meritando di vincere”. La prima casa era in via Washington 107, riconoscibile dalle scritte sul marciapiede in vernice bianca: “A morte Bearzot”. Sarà stato un tifoso di Beccalossi o di Pruzzo, gli illustri non convocati, o uno dei tanti antipatizzanti che ogni notte minacciavano via telefono o citofono.

Bearzot continuava a cambiare numero di telefono, poi cambiò casa e andò in via Crivelli. Trovando la tranquillità giusto perché aveva vinto nell’82, ma quante ne aveva dovute sentire e leggere. Scimmione. Bastardo. Scimpanzé. Direttore di un lebbrosario (il ritiro degli azzurri). Vittima di un cortocircuito cerebrale. Raccomandato da Fulvio Bernardini (non era vero) preoccupato che ci fosse il pane per i suoi due figli (nemmeno questa era vera, i risparmi di un’onesta carriera di operaio specializzato a centrocampo, così si definiva lui, li avevi messi a frutto).

Una squadra da prendere a calci, aveva detto Matarrese, presidente di Lega. “Le due ultime partite prima dell’Argentina erano da spararsi. Ma io non potevo, doveva andare avanti”. Molti, ricordando Bearzot, citano la sua capacità di parlare con l’uomo calciatore. Può averla assorbita da Rocco che del resto, da suo allenatore, lo spinse a fare lo stesso mestiere. Rocco aveva la commissione interna. Bearzot si fidava delle autocandidature. “Chi vuol marcare Zico?”. “Io”, disse Gentile alzando la mano. Ma di quella partita-capolavoro, la vera finale dell’82, la mossa fondamentale di Bearzot riguardò Serginho. In molti ci chiedevamo perché quella squadra tecnicamente fortissima tenesse come punto (e punta) di riferimento un lungagnone sgraziato come Serginho.
Bearzot si era dato la risposta: perché Serginho non andava mai in fuorigioco, dava profondità alla squadra e facilitava gli inserimenti di Socrates, Zico, Falcao, Junior. Ergo, anticipare Serginho e, riconquistato il pallone, via veloci. In anticipo giocarono benissimo prima Collovati, poi Bergomi. Ma io, come flash personale e pensando alle accuse di catenacciaro, ho un pezzetto della finale: doppio scambio nell’area tedesca tra Bergomi (dentro) e Scirea (fuori) prima dell’apertura che porta al gol Tardelli.

L’avesse segnato un Cruijff, quel gol, tutti avremmo suonato i violini al calcio totale degli olandesi (che Bearzot ammirava). Fatto dagli azzurri, passava per una casualità. E ancora ricordo lo sterno rientrante di Pablito, che sembrava un riformato alla leva, le corse di Conti che sembrava un raccattapalle invecchiato, e il vice-Bettega, l’attaccante di sfondamento, era Altobelli, un mucchio d’ossa. Meno colloni, coscioni, mascelloni. Più importanti i tre gol di Rossi o una sola delle parate di Zoff, quella al 90’ su incornata di Oscar? E’ difficile dire, com’è difficile raccontare oggi cosa fosse quella squadra. Forse il paragone più azzeccato l’ha fatto lo stesso Bearzot, conversando col suo amico e biografo Gigi Garanzini (“Il romanzo del vecio”, Baldini & Castoldi, 1997): “Se io ascolto I’m coming Virginia, il mio pezzo preferito di Bix Beiderbeck, mi vedo davanti agli occhi una straordinaria squadra di calcio. La batteria dà i tempi di fondo, un po’ come il regista che detta le cadenze del gioco, il sax può essere il fantasista, il contrabbasso è il libero, capace di difendere ma anche di offendere, la tromba è il goleador. Tu che dirigi fai in maniera che i singoli interpreti si muovano entro il filo conduttore della musica e si adattino di volta in volta al pezzo da suonare, così come alla partita da giocare. Ma sempre in funzione dell’assolo del solista, perché è quello che ti mette i brividi ed è grazie a quello che si vincono le partite”.

Ve lo immaginate un allenatore di oggi che parte dal jazz per spiegare il suo calcio? Io no. Ma anche Brera aveva usato gli endecasillabi leopardiani per raccontare il dribbling di Pelé. E di Brera, ma ancor più di Giovanni Arpino, Bearzot era amico. “Sopporto le critiche ma non le insinuazioni e le offese. E, pur essendo cattolico, non porgo l’altra guancia”. Ultimamente preferiva parlare di politica più che di calcio. “Sono rimasto, al mio bar, l’unico antiberlusconiano”. E allora ti rassegni? “Un corno, allora m’impegno di più”. Con orgoglio e umiltà, aveva giocato 442 gare tra A e B. Aveva iniziato contro Silvio Piola e chiuso contro Sandro Mazzola. I suoi volevano farne un medico, o almeno un veterinario, o almeno un impiegato di banca. “Ma io avevo deciso di fare il calciatore il 19 giugno del '38 ascoltando il 4-2 del secondo mondiale nella piazza di Gradisca. Avevo capito che il calcio può dare tantissime gioie alla gente”.

Può anche farla pensare, che non è una brutta cosa, oggi che per valore s’intende solo quello del cartellino. Tre anni fa l’ultima domanda di un’intervista a Bearzot nel giorno del suo compleanno era stata: “Come le piacerebbe essere ricordato, tra un po’ d’anni?”. Risposta: “Come una persona perbene”. Così si concludeva il mio pezzo, ma adesso è diverso. Adesso che mi sento un po’ più povero ma lucido, devo dirti, Enzo, che così sarai ricordato, perché non ci sono altre strade. E ti sia lieve la terra, vecio. (22 dicembre 2010)

R.i.p.
Grande simbolo di un epoca ormai lontana e di un Italia meno stronza di com’è oggi.