Bridge of Spies - Il ponte delle spie (Steven Spielberg, 2015)

E dopo Lincoln, un’altra zampata di gran classe del vecchio leone Spielberg. Che qui ci racconta la vera storia di James B. Donovan, avvocato americano incaricato (non ufficialmente) di riportare a casa Francis Gary Powers, il pilota di U2 catturato dai russi. Guerra fredda, Berlino, Checkpoint Charlie, il ponte di Glienicke, maccartismo, paura per la minaccia nucleare e fiducia nei valori della Costituzione. Un film asciutto e potente, splendidamente interpretato da Tom Hanks, il James Stewart attuale, e scritto dai fratelli Coen. Un film classico, come si facevano una volta, diretto in maniera magistrale da Spielberg. Per citare Alessandra Levantesi Kezich:

È un magnifico classico ‘Il ponte delle spie’, e pazienza se alcuni considerano riduttivo il termine, ce ne fa remo una ragione. Classico nel senso che si iscrive nel filone hollywoodiano del dramma di guerra; classico nell’impianto della storia basata su fatti veri; classico nello stile ispirato al cinema Anni 40/50: e però, lungi dall’essere di maniera, il classicismo di Steven Spielberg è sempre una magistrale forma di re-invenzione a forte impatto emotivo.

Hanks, un uomo tutto d’un pezzo.

Rudolf Abel: Standing there like that you reminded me of the man that used to come to our house when I was young. My father used to say: “watch this man”, so I did, every time he came. And never once he do anything remarkable.

James Donovan: And I remind you of him?

Rudolf Abel: This one time, I was at the age of your son, our house is overrun by partisan boarder guards. Dozen of them. My father was beaten, my mother was beaten, and this man, my father’s friend, he was beaten. And I watched this man. Every time they hit him, he stood back up again. Soldier hit him harder, still he got back to his feet. I think because of this they stopped the beating and let him live… “Stoikiy muzhik”. Which sort of means like a “standing man”… Standing man…

Buon film classico per tutti i pubblici direve.

Storia vera, nello spirito di esaltare i valori come onore, la giustizia, l’onestà , ecc Spionaggio con violenza zero e finale emozionante (per il “cuore”), bello.

Dura poco più di due ore .

Pellicola di un’eleganza assoluta. Pare di avere a che fare con un film degli anni '40/'50 e Tom Hanks è stato giustamente paragonato a James Stewart, una maschera austera, pulita, distinta, esemplare del cinema spielberghiano. Evocativo il modo in cui Jim Donovan entra in scena, con un primo piano che si apre con estrema lentezza, mentre l’avvocato sostiene una disputa assicurativa con un collega, dando prova di possedere a menadito l’argomento e poter fronteggiare qualsiasi attacco, sempre con flemma ed estrema cortesia. Manca il fumo di una sigaretta (siamo nel 2015, ed il politically correct impone ben altro background rispetto all’ambientazione ruvida che avrebbe immaginato, ad esempio, un Orson Welles) e parrebbe di essere negli anni '50. Si critica sempre molto Spielberg per la sua facilità a cadere nella retorica, spesso scambiandola erroneamente con la grande “umanità” che mette nelle sue storie e nei personaggi che racconta. Anche qui, ad esempio, laddove la retorica avrebbe potuto strabordare, ad esempio le fucilazioni dei fuggiaschi al muro di Berlino e il conseguente parallelo con i ragazzini di Brooklyn che scavalcano per gioco una rete d’acciaio,la misura si mantiene su binari emotivamente tesi, commoventi, ma mai patetici. Rigoroso e sobrio anche lo splendido rapporto tra Donovan/Tom Hanks e Abel/Mark Rylance. Il suo tormentone “servirebbe?”, ogni qual volta Hanks gli chiede perché non sia preoccupato del suo destino, o il racconto che culmina con “stoikiy muzhik” (uomo tutto d’un pezzo) - già citato da almayer - sono da pelle d’oca.

Spielberg è oramai avvertito come pedante, ridondante, pleonastico, retorico, enfatico… sostanzialmente rimbambito. Il Ponte delle Spie è un perfetto compendio a confutazione di questa scuola di pensiero. Ai detrattori pare completamente sfuggire la raggiunta “classicità” del suo cinema, che per forza di cose non può essere più quello dirompente ed innovativo di Duel, de Lo Squalo, di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, de I Predatori dell’Arca Perduta, ma che si è sviluppato in un cinema narrativo (direi IL Cinema Narrativo per eccellenza), morale, edificante (ma non per questo privo di slanci immaginifici e creativi), la cui cifra pregnante è, appunto, la grandissima umanità. Quando hai finito di vedere Il Ponte delle Spie ti senti un po’ meno disgustato di appartenere al genere umano. Sensazione opposta e contraria rispetto al cinema dei Tarantino, dei Von Trier, dei Cronenberg, dei Lynch (tutti registi che apprezzo tantissimo, sia chiaro), quasi sempre alla ricerca della dis-umanità, esaltata e declinata per estremi, in una incessante ricerca dell’eccesso, del kitsch, del bizzarro, del cinico, del perverso, del balordo, dell’eccentrico, talvolta anche in modo fine a se stesso purché ansiosamente e marcatamente distante proprio dalla sobrietà, dalla misura, e dalla austerità di un autore “classico” come può essere l’attuale Spielberg.

Mi capita sempre più spesso di notare una certa spocchia, una certa presunta superiorità che i cultori di Tarantino (cito un nome per tutti) reputano di dover ostentare nei confronti di un autore - a mio parere grandissimo - come Spielberg (che Kubrick riteneva il miglior regista vivente), quasi a significare che loro “la sanno lunga” e non si lasciano infinocchiare dal cinema dei barbogi. I gusti sono gusti e su questo non “si disputa”, sull’affetto di pancia verso un regista neppure, ma credo che sia più una posizione ideologica che oggettivamente cinefila. Io, per dire, detesto Nolan ma mi tocca di certo ammettere che come “tecnico” della MdP ha pochi rivali.

Quoto ampiamente mr D. Vuoi per la storia, vuoi per la sceneggiatura, vuoi per gli attori, ma qui Spielberg gira il suo miglior film da “Munich”. Cinema storico-politico di alto livello, impeccabile nella forma e sempre coinvolgente: chapeau al regista e ad Hanks, davvero perfetto (e benissimo servito dal doppiaggio di Angelo Maggi). In tutta onestà, non so se l’attore è “il James Stewart attuale”, come scriveva Almayer, ma vivaddio non so proprio immaginarmi un altro attualmente su piazza nel medesimo ruolo. E Mark Rylance è indelebile col suo ineffabile “Servirebbe?”
P.S. Da noi, due anni fa, fu il maggior incasso delle feste natalizie dopo “Star wars”. Segno che c’è ancora spazio e necessità di cinema “adulto”. Comunque, pure Tarantino e Kubrick sono autori “umanisti”. Ma nel senso che hanno davvero poca fiducia nell’essere umano: e come dar loro torto?! Un Nolan, invece, oltre ad essere pure lui “umanista” qualche piccola speranza ce l’ha ancora (vedi “Interstellar” e “Dunkirk”; mentre è RADICALMENTE pessimista nel magnifico “The prestige”).