Giuliano Gemma, c’era una volta il Western
di Alberto Crespi
Sullo schermo gigante scorrono i titoli del Deserto dei tartari. Giuliano Gemma li legge e mormora: «Guarda che culo! Siamo in ordine alfabetico e io vengo subito dopo Vittorio Gassman». Giuliano Gemma ha quasi 66 anni e pare un ragazzino: nessuna meraviglia che la gente lo riconosca per strada, è ancora identico al Ringo che 40 anni fa ci fece scoprire il Far West. Poco importa che Una pistola per Ringo e Il ritorno di Ringo fossero girati in Spagna e diretti dall´italianissimo Duccio Tessari, per chi era bimbo nel 1964 venivano dallo stesso territorio incantato dove si aggiravano Gary Cooper e Toro Seduto. Il Ringo di Gemma era idealmente lo stesso Ringo di John Wayne in Ombre rosse. Poi qualcuno ci avrebbe spiegato che John Wayne era americano e Giuliano Gemma romano. Ma da ragazzini, quando si gioca agli indiani e ai cowboys, che differenza fa? «Il deserto dei tartari - continua Giuliano - è stato il mio esordio in serie A. Valerio Zurlini ebbe un bel coraggio a scegliermi, perché il mio personaggio, il maggiore Mattis, nel romanzo di Buzzati è un ciccione laido e autoritario. Zurlini volle trasformarlo in un militare sadico, ossessionato dalla disciplina, e mi impose contro tutto e tutti. Mi ritrovai nella fortezza di Bam, ai confini tra Iran e Afghanistan - la stessa che lo scorso Natale è stata distrutta dal terremoto - assieme ad un cast da favola composto da Philippe Noiret, Jacques Perrin, Fernando Rey, Francisco Rabal, Max Von Sydow, Jean-Louis Trintignant… e Vittorio Gassman, che considero il più grande attore della nostra storia, perché sapeva fare tutto, la commedia e il dramma, il cinema civile e il cinema d´azione. Un cast sul quale Zurlini regnava come un generale. Il vero comandante della Fortezza Bastiani era lui».
Gemma è recentemente stato a Narni, al festival «Le vie del cinema» dedicato ai film restaurati, per presentare proprio Il deserto dei tartari. Il pubblico se l´è mangiato con gli occhi, perché in tanti, dai 40 in su, sono cresciuti con Ringo e gli altri suoi personaggi. E con chi potevamo cominciare un viaggio nell´avventurosa storia del western italiano, se non con lui? Giuliano, torniamo a quel 1964. Esce Per un pugno di dollari. Cosa pensaste tutti quanti? «Rispondo per me: non pensai che fosse nato un nuovo filone. Fui molto affascinato dal film di Leone, dallo stile: aveva un modo di impaginare l´azione, di coreografare la violenza, del tutto diverso dai western americani. Era un film nuovo, inedito, scioccante. Quasi subito il mio amico Tessari mi propose il copione di Una pistola per Ringo. Lì per lì mi chiesi: ma come può Duccio, che è un regista ricco di umorismo e di ironia, fare un film sulla scia di Leone? Non è nel suo stile. Poi lessi la sceneggiatura e capii che il film era, appunto, ironico: Duccio aveva trovato una sua via personale per il West. Anni dopo avremmo realizzato, con lo stesso spirito, Tex e il Signore degli abissi, ma fu un’occasione perduta: ancora mi domando perché un fumetto popolare come Tex, che assicurava una riserva di centinaia di storie, non sia diventato una serie televisiva. Un po’ di anni fa, sarei stato perfetto. Oggi, non più… Ma è mancato, forse, lo spirito imprenditoriale, che invece era così forte nel cinema degli anni 60, quando l´Italia era la seconda cinematografia al mondo. I generi - la commedia in primis, ma anche il peplum, l´horror - avevano un respiro internazionale, e i grandi autori erano grandi davvero perché pensavano cinema in grande. Ricordo ancora, tra il
59 e il 60, Fellini che gira La dolce vita a Cinecittà: il set di Via Veneto era un´attrazione, tutti andavamo a curiosare anche se non ci dovevamo lavorare. Io ero ancora un ragazzo a caccia dei primi ruoli. Sfondai nel
64, sì, ma il vero «colpo» lì per lì non mi sembrò Ringo, ma la partecipazione ad Angelica, nel ruolo di Nicolas. Quelli erano film che avevano successo dovunque. Tanto che i produttori mi affibbiarono, per Una pistola per Ringo e Un dollaro bucato, il solito pseudonimo inglese, Montgomery Wood: ma già dal terzo western, Il ritorno di Ringo, mi imposi e ripresi il mio vero nome».
Al cinema eri arrivato come cascatore… «Come acrobata, più precisamente. Avevo cominciato come ginnasta, ma a 14 anni ero alto 1,80, troppo per la ginnastica, e quindi passai alla boxe, ai tuffi, al paracadutismo… I primi film li feci come stunt-man. Stavo lì a Cinecittà, un giorno, quando mi vide William Wyler e mi fece fare una posa in Ben Hur; fortuna volle che la scena, in cui mi interpongo con un coltello fra Charlton Heston e Stephen Boyd, nelle terme, sia diventata una delle foto di Ben Hur più viste nel mondo. Ebbi molta fortuna: il primo ruolo parlato, sia pure minuscolo, lo feci con Alberto Sordi in Venezia la luna e tu. Da allora Sordi mi ha sempre voluto bene, anche se non ho più lavorato con lui: ogni volta che mi incontrava mi dava una carezza e mi diceva: ma quanto sei bello!..».
A sentire Gemma, tutta la sua carriera è stata una questione di fortuna (sì, lui usa un’altra parola, quella dell’ordine alfabetico di cui sopra) e di carezze, come vedrete. Noi sospettiamo che ci sia voluto anche talento: di atleta prima, di attore poi. Inizialmente, certo, il fisico giocò la sua parte: «Quando Tessari, nel `61, mi provò per Arrivano i titani, il provino fu una lunga serie di acrobazie, poi un sorriso in macchina, e il ruolo fu mio. Forse proprio in quanto ex atleta, sul set del Deserto dei tartari feci amicizia con Gassman, che era stato nazionale di pallacanestro: all’inizio delle riprese andai da lui e gli chiesi di avere pazienza con me, che non ero abituato a un cinema di qualità così alta… Mi diede un buffetto sulla guancia e mi disse: farai tutto per bene. L’amore per lo sport ci accomunava, ma con una differenza: lui odiava i cavalli! Infatti quando il maestro d’armi assegnò un destriero a ciascun membro del cast, Vittorio disse “io lo voglio di pietra, e drogato!”. In un film era caduto e aveva una paura maledetta».
A proposito di buffetti: ne avesti uno anche da Burt Lancaster… «Burt era il mio idolo, anche perché era un ex acrobata come me. Lo conobbi sul set del Gattopardo, dove ebbi la fortuna di fare un paio di pose (una è tagliata, ma l’altra è nel film: sono un generale garibaldino). Gli mostrai delle foto dai Titani, in cui zompavo sul trampolino elastico, e gli dissi che ero come lui nel Corsaro dell´isola verde. Fu generoso: invece di mandarmi al diavolo, mi diede una pacca sulla guancia… Il gattopardo fu un´esperienza straordinaria: vedere Visconti al lavoro era come andare all´università. Nel film c´era anche Terence Hill, ancora col nome di Mario Girotti».
A proposito: che pensasti, tu che eri un eroe del western «serio», quando cominciarono a uscire i «Trinità»? «Mi sembrarono un´evoluzione logica. Il western è una mitologia aperta, che si può riscrivere, modificare in mille modi. Se al pubblico piacevano i “Trinità”, evviva. È la stessa cosa che mi disse Eli Wallach: i vostri western, diceva, sono un altro modo di raccontare la nostra storia. In più fanno soldi, aggiungeva, ed è il motivo per cui sono qui a farne uno. Il cosiddetto spaghetti-western ha influenzato anche il western americano, da Sam Peckinpah a Clint Eastwood».
Era un genere in cui gli atleti, o ex atleti, andavano forte. Bud Spencer, ovvero Carlo Pedersoli, era un grande nuotatore, mentre in Vivi o preferibilmente morti tu tenesti a battesimo Nino Benvenuti… «E dovetti insegnargli a boxare!» Prego? «Boxare al cinema, si capisce. Un vero pugile come Nino (quando fece il film con me e Tessari era ancora in attività) aveva colpi velocissimi, che al cinema letteralmente “non si vedevano”. Dovemmo insegnarli, assieme al grande stunt-director Nazzareno Zamperla, a portare i colpi più lentamente, e in modo più ampio, più “teatrale”. E, soprattutto, a fermarli al punto giusto, altrimenti ci avrebbe messo tutti k.o. al primo pugno! Naturalmente dovemmo anche avvertirlo: quando fosse tornato sul ring, avrebbe dovuto dimenticare tutto quello che gli avevamo insegnato, o sarebbero stati dolori. Siamo rimasti amici, io e Nino. Recentemente l´ho ritratto in una mia scultura».
Salutiamo Giuliano Gemma felici di aver conosciuto una bella persona, oltre che un bravo attore. Ma rimaniamo con la voglia insoddisfatta di rivedere i western della nostra infanzia: qualcosa sta uscendo in Dvd (I lunghi giorni della vendetta, Il prezzo del potere, California, tutti editi da Nocturno…) ma i «Ringo» rimangono invisibili. Perché? «Sarà un problema di diritti. Posso dirti che sono usciti in Giappone, e che vedermi doppiato in giapponese è esilarante * ma per fortuna i Dvd contengono anche l’edizione italiana. È il mio destino: sono stato popolarissimo in Italia ma ora mi apprezzano di più all’estero. Hanno scritto libri su di me in Germania, in Giappone, in Spagna…» E ci mostra un libro bellissimo, Giuliano Gemma. El factor romano, scritto da Carlos Aguilar e pubblicato nel 2003 dalla Diputacion (la municipalità) di Almeria: editori italiani, che aspettate a tradurlo?
Fonte: http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=INCONTRI&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=36651