Siamo in tre.
Rivisto ieri sera per la seconda volta (ho la mia copia su VHS): il soggetto è sicuramente interessante, però il film, dai 60 minuti in poi, diventa abbastanza confuso e soprattutto, per più di un quarto d’ora perde il il punto di vista del personaggio principale (Emilio) per svolgere una trama gialla della quale si fa carico direttamente l’istanza narrante. Assolutamente scarna e inconsistente la storia d’amore tra Emilio e Giacomina. Un punto interrogativo sul personaggio di Costantino (chi è, che ruolo ha?) anche e soprattutto per come viene introdotto ad inizio-film. Molti personaggi in scena e situazioni non sempre gestite al meglio in sede di montaggio: probabilmente, a causa della durata della pellicola, sono state eliminate alcune scene (qual’ora risultassero effettivamente girate dal regista) che come raccordo sarebbero state utili a rendere più omogeneo il film.
Insomma, non direi: giovani pastori intrappolati dal destino in un paesino (Coloras: un nome=un programma) della Sardegna centrale, frustrati che non riescono ad immaginare altro futuro che non sia l’abigeato e il delinquere…e il “continentale” che non si racapezza in una simile società, è costretto a fuggire…
Non è poi molto chiara la tesi del regista: sono forse l’isolamento e la disoccupazione a generare la violenza nei giovani sardi? O è un’eredità culturale scolpita a livello genetico - quel famoso “pocos, locos y mal unidos” - a renderli unu populu de tzerachos, come dice, malinconicamente, Costantino nel finale del film? C’è forse un rimprovero del regista ai suoi conterranei, a leggere tra le righe del dialogo tra Emilio e Giacomina seduti su una bellissima spiaggia deserta:
[SIZE=2][FONT=Tahoma][FONT=Tahoma][SIZE=2][FONT=Tahoma][SIZE=2]E.: “Voi sardi non avete iniziativa!”
G.: “…Perché siamo tutti divisi”
E.: “Noi invece ci siamo uniti e abbiamo fatto le cooperative!”
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Però, poco dopo, sembra scoccare una frecciatina nei confronti di una certa mentalità romagnola votata unicamente al business:
[FONT=Tahoma][SIZE=2]E.: “Nelle spiagge di Rimini c’è una fila di stabilimenti, la spiaggia è piena di ombrelloni, sedie-sdraio e tanta di quella gente da non rimaner spazio nemmeno per uno spillo. Perché c’è vita!”
G.: “…E il mare?”
E.: “… (silenzio) …”
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[/SIZE][/FONT]Sanna possiede buone capacità come regista, però anche lui ha (o aveva) il viziaccio del 90% dei registi sardi di raccontare storie ambientate in una Sardegna rurale contemporanea ma rimasta ancorata alle convenzioni sociali di 200 anni fa con i tanti (troppi) stereotipi di una Sardegna come lo spettatore se la immagina (e ricordiamo che il film è del 2002, non certo del 1970).
Oggi, nomi quali Efisio, Maria Antonia, Gavino e Costantino, sono via-via sostituiti dai vari James, Marika, Asia, Mirko, etc., come nel resto d’Italia, mentre i ragazzi fuggono dalla campagna per inseguire il sogno (o l’incubo, a seconda del punto di vista) del milionario ad ogni costo, del “berlusconismo”, della bella vita a suon di dollaroni, cocaina, champagne e bonazze siliconate disposte a tutto.
Ecco questa è una tematica attuale che sarebbe interessante mettere in scena: la spersonalizzazione del popolo sardo e la sua incapacità di rinnovarsi pur mantenendo i lati positivi delle tradizioni arcaiche, dato che certe tradizioni sono del parere sia meglio perderle che mantenerle in piedi. Sanna racconta ancora di pecore, di omertà, vendette, isolamento culturale…nell’epoca di Internet!