Vagando per la rete ho trovato una magnifica intervista ad Andrzej Zulawski su una rivista telematica francese. Mi sono messo di buzzo buono e l’ho tradotta, perchè è davvero interessante e aiuta a capire e a scoprire il cinema e la poetica del maestro, soprattutto in mancanza di altre pubblicazioni approfondite e ben curate su di lui (gli unici due volumi scritti su Zulawski sull’intera faccia della terra, sebbene stranamente entrambi italiani, sono davvero di difficilissima reperibilità, nonostante siano usciti piuttosto di recente).
Se qualcuno volesse visitare la pagina originale del sito francese (ve lo consiglio, è davvero interessante), questo è il link: http://oeil.electrique.free.fr/article.php?numero=29&articleid=513
Perdonate eventuali errori di traduzione, ho fatto in fretta e non ho nemmeno riletto
LA METAFISICA DEL CAOS – ANDRZEJ ZULAWSKI
Nato nel 1940 a Lwow, in Polonia, e figlio dello scrittore Miroslaw Zulawski, Andrzej Zulawski si è imposto, con una dozzina di film tra cui qualche capolavoro, come un autore singolare ed esigente, ai margini della produzione mondiale. Allievo dell’IDHEC, debutta al cinema nel 1960 sotto l’egida di Andrzej Wajda, per il quale svolge il ruolo di aiuto regista nei film Simon e L’amore a vent’anni (l’episodio Varsavia). Qualche anno più tardi pubblica il suo primo romanzo, Kino, proibito nel suo paese natale, prima di lavorare per la televisione. Nel 1971 insieme a suo padre firma la sceneggiatura di La terza parte della notte, un primo film viscerale e violento, dall’estetica quasi espressionista, che è premiato al festival di Venezia. Seguono Diabel, una favola filosofica e onirica sulla condizione umana, L’importante è amare, con Romy Schneider e l’incompiuto Sul globo d’argento, film di fantascienza le cui riprese vengono sospese dalle autorità polacche. Nel 1979 si rifugia a Berlino per girare Possession, che frutta a Isabelle Adjani il premio di miglior interpretazione femminile al festival di Cannes. In alcuni film rivela un universo celebrale, crudele e caotico, in cui i sentimenti si scontrano violentemente tra loro per mettere a nudo la natura umana. Installatosi in francia al principio degli anni ’80, egli continua parallelamente alla sua carriera di cineasta quella di scrittore e saggista, partorendo delle opere spesso sorprendenti e depistanti. Lo testimoniano i suoi ultimi due film, La sciamana, inno alla passione distruttrice, e La fidelté, variazione su La princesse de Clèves di Madame La Favette.
Durante la visione dei suoi film, ci si rende conto che una grande importanza è dedicata alla fase di scrittura. Può spiegarci che cosa rappresenta la scrittura nel suo cinema?
Non esiste praticamente nessun mezzo nel cinema sia di oggi che di ieri per convincere qualsiasi persona della buona fondatezza dei vostri propositi, se non avete una sceneggiatura scritta. Il paradosso sta nel fatto che ci siano ben pochi produttori in grado di saperle leggere. Questo non significa che siano degli analfabeti, ma che considerano la sceneggiatura come un rassicurante documento ufficiale. Ciò che li tranquillizza ancora di più è quando la sceneggiatura non è originale ma è tratta da un best-seller di successo. La sceneggiatura è dunque una tappa obbligatoria. Tendo a credere che una sceneggiatura scritta in maniera tanto perfetta che si legga allo stesso modo di un’opera d’arte o di un interessante documento letterario, non sia il miglior materiale per realizzare un film. Di quelle sceneggiature ne ho lette parecchie in vita mia, ed è meglio che stiano su uno scaffale a casa propria invece che portate su uno schermo. La sceneggiatura è una strana creatura: è un piano di navigazione molto schematico che lascia il suo posto all’aria che si respira sul set, agli attori, allo sviluppo delle cose che succedono durante le riprese, alla stessa immaginazione del regista, che non è obbligato a oggettivarla sulla carta. E non dimenticherò mai che una delle cose più pertinenti che abbia detto Ingmar Bergman è che la migliore sceneggiatura è simile a un testo teatrale: ci sono solo i dialoghi e nessun’altra indicazione. Dove e come l’avvenimento si svolga sta al regista deciderlo.
Qual è dunque l’influenza della personalità degli interpreti durante la scrittura e la realizzazione di un film?
Si scrive pensando fermamente a dei caratteri, a dei personaggi. Non si scrive per niente e tutto ciò che si scrive deve teoricamente dire qualcosa di coerente, che si regga in piedi. Si cerca quindi in seguito di scegliere degli attori il cui carattere, gli interessi personali e la psicologia siano il più possibile vicini e in comune con quelli dei personaggi del testo scritto. Evidentemente questa somiglianza non può mai essere del 100%, a meno che non si lavori col disegno animato. Bisogna quindi comprendere che il vivo del processo consiste, una volta stabilita la rosa degli interpreti, nel far si che questi interpreti non si sentano calati nei loro ruoli come se fossero costretti in un corsetto. Essi devono apportare le loro esperienze, le loro vite, i loro desideri, le loro intuizioni e talvolta anche le loro emozioni più selvagge e brutali.E il ruolo di un regista è quello di non dimenticarsi mai, come su un vassoio, in vista di che cosa tutti sono riuniti. Lo scopo è di osservare questo bambino che nasce e cercare di comprendere che cosa lo arricchisca, cosa può sviarlo, cosa può deviarlo… Questo dialogo innanzitutto deve instaurarsi tra il regista e gli interpreti, prima, durante e dopo le riprese. La sceneggiatura è in continuo divenire…
Il conflitto e la violenza sono dei temi ricorrenti nella sua opera. Questo stato conflittuale è un elemento-motore del suo processo creativo e le è indispensabile?
I conflitti e le violenze dei miei film sono dei riflessi piuttosto palesi dei conflitti e delle violenze che accadono nel mondo. Sono sensibile alla violenza e alla cattiveria delle cose. Il privilegio di poterle mostrare sullo schermo è un mezzo per esorcizzarle. Certi studi accusano il cinema di provocare la violenza nei giovani. Io risponderei diversamente. Qualsiasi cosa può generare la violenza fra la gente, non per forza il cinema. E’ meglio secondo me vedere la violenza sullo schermo che vederla uscendo dalla sala.
Il fantastico, il sovrannaturale, l’universo dei fantasmi impregnano la maggior parte dei suoi film, fino a far credere che l’immaginario sia, in una certa qual maniera, indissociabile dalla realtà.
Non è un caso se noi scriviamo delle favole per ragazzi, non è un caso se c’è Walt Disney, non è un caso se c’è la fantascienza. Questa facoltà del nostro cervello di inventare quello che non esiste davanti ai nostri occhi è magnifica e non bisogna privarsene. Certe persone non riescono a comprendere il funzionamento di una dimensione fantastica, all’interno della quale la morale di ciò che tentate di dire si disegna senza fare prediche, senza grandi chiacchiere, ma al contrario attraverso le immagini. In Possession, ad esempio, la dimensione sovrannaturale era indispensabile, poiché permetteva di illustrare qualcosa di più vasto, di più profondo. Dunque talvolta il sovrannaturale è necessario.
L’importante è amare, La sciamana, La femme publique… Anche il rapporto con il corpo occupa un posto molto importante nella sua opera…
Sa, io credo che noi siamo costruiti su questi due poli, lo spirito e il corpo, che l’uno senza l’altro non avrebbero alcun senso e nemmeno esisterebbero. Fin dall’alba dei tempi si è tentato di dividere l’uomo in due parti, ci dicevano che lo spirito è puro e che il corpo è macchiato. Io penso che l’uno sia il fondamento dell’altro e viceversa. Prendiamo ad esempio le ricerche sull’infinitamente piccolo, nel campo della materia, che sono arrivate a un punto davvero stupefacente. Il più piccolo elemento che è stato scoperto finora non ha nessuna caratteristica di ciò che chiamiamo materia. Non ha peso, non ha movimento, non esiste fintanto che non lo si guarda. E’ in un certo senso puro spirito. E questo ci mostra quanto ancora sia incomprensibile il campo dei legami tra il corpo e l’anima.
I personaggi principali dei suoi film e romanzi, danno l’impressione di non esistere se non nell’eccesso e nel caos. In che modo questo conflitto interno tra la ragione e l’emotività può servire da motore per l’esistenza?
Ho visto la guerra, il comunismo, tanti morti e violenza attorno a me che ritenevo che fosse necessario gridare, e che ogni mio film avrebbe potuto essere l’ultimo. La concentrazione necessaria per un film esige questa specie di tensione violenta, di esacerbazione. Facevo i miei film in questa condizione spirituale. Ma lentamente mi accorgo che il tempo passa e che non sono ancora morto, che le cose che facevo all’inizio e che sembravano estremamente brutali entrano nel pantheon della storia del cinema e trovo tutto ciò sorprendente. Mi accorgo oggi che probabilmente ho più tempo, che probabilmente abbiamo più tempo di quello che pensavo. E’ ciò che mi ha spinto a fare il mio ultimo film, La fidelté, togliendo il piede dall’accelleratore e domandandomi se, prendendomi un po’ più di tempo, potessi ottenere la stessa intensità di sentimento, la stessa violenza interna alle cose senza dispiegarla come un urlo da circo. Sono molto felice che le cose vadano così. Ciò non significa che domani io non possa essere invaso da una folle rabbia nei confronti di qualche cosa. Mi accorgo che sto correndo una specie di 3000 metri ostacoli, e che negli intervalli di questi ostacoli ho dei momenti di distensione…
In qualità di cineasta lei sembra affascinato dalle donne, che occupano un posto importante nella sua opera, come se lei si nascondesse adombrandosi dietro di loro…
Hanno un’altrettanto grande importanza nella mia vita, mi creda… Penso di non aver alcuna intenzione di fare film narcisisti e di autocontemplarmi. Credo che tutta la bellezza del cinema consista nel fare dei film su delle cose che non si conoscono, che si temono e che si amano, per esempio delle cose nei confronti delle quali si ha un rapporto molto forte e che si tenta di far rinascere sullo schermo. E’ una relazione molto viva. Conosco un mucchio di registi e sceneggiatori che sono l’esatto contrario dei loro film, per esempio estremamente morali nelle loro opere ed immorali nella vita. Personalmente non vorrei che mi si potesse dissociare da quello che faccio, che mi si possa dissociare dalla mia opera. Io sono io, dico quello che penso e penso quello che faccio, con tutti i rischi che ciò implica, perché dio sa quanti sbagli posso commettere.
Lei ha girato un film di fantascienza in Polonia, Sul globo d’argento, che per delle ragioni politiche è rimasto incompiuto. Cosa rappresenta per lei questo genere?
Amo molto la fantascienza, perché al giorno d’oggi l’intelligenza nel cinema è molto sensibile alla tecnica. E’ una tappa e non è detto che debba durare all’infinito. Ma i registi che oggi sono sulla cresta dell’onda sono quelli più pronti ad assimilare le nuove tecniche ed anche a crearle.
Pensa di ritornare un giorno al cinema di genere e al fantastico in generale?
Perché ciò avvenga sarebbe necessario che i produttori francesi fossero meno pigri. Già non arrivano nei loro uffici prima di mezzogiorno, mentre a Los Angeles sono al lavoro già dalle otto. Inoltre, se portate una sceneggiatura un po’ più complessa del solito a un produttore francese, egli tenta di convincervi ad aggrapparvi a un progetto più semplice. Ora, la storia del cinema è simile alla storia di una miniera di carbone. Bisogna andare verso il carbone e picconare, senza avere paura. E se soltanto all’idea del piccone vi sentite già spossati e preferite, come nel caso del cinema francese, impiegare il vostro tempo fra una riunione mondana e l’altra, allora tutti i film finiscono per assomigliarsi.