Maciste contro i mostri (Guido Malatesta, 1962)

MACISTE CONTRO I MOSTRI (1962)
di Guido Malatesta

Con Reg Lewis, Margaret Lee, Andrea Aureli, Nello Pazzafini e Ivan Pengow

Sabato 2 dicembre
Su La7
Alle 10.25

http://www.cinematografo.it/cinematografo/s2magazine/index.jsp?idPagina=4607

Il peggior Maciste, come film e come interprete.

Delizioso nella sua povertà e nell’involontaria comicità.
LA scelta di Reg Lewis gioca comunque a sfavore di questo bizzarro peplum.

Belli i mostri di Gomma simili a quelli con cui si giocava da piccoli

Belli? Sono i peggiori di tutto il filone. Dai, cerchiamo di essere seri e di non fare i commenti stracultari ad ogni costo.

Era in senso ironico… e poi io prediligo sempre le cose ben realizzate… a meno che non si tratti di farsi due risate…

Rivisto oggi…che dire il titolo è già la metà del film, considerando che di mostri ce ne sono tre in croce.

La figura del popolo degli Ulm (selvaggi antropofaghi) sarebbe stata da approfondire di più, ma come ha già detto Paolo questo è uno dei peggiori del filone, da guardarsi solo per farsi 2 risate.

Peplum con ambientazione preistorica diretto da Malatesta molto povero di budget e di idee e attori tra cui il culturista Reg Lewis biondo mesciato e poco convincenti discreto perlomeno il master del dvd impulso.

Dai vostri commenti capisco che non sono stato l’unico a ridere con questo film che considero probabilmente il peggiore dell’intero genere. Maciste ossigenato senza espressione è quasi il top che però viene raggiunto da Aureli che grida come un esaltato durante le battaglie. Alcuni momenti di lotta sono ben coreografati. I mostri, si dice, siano opera di Rambaldi ma lo stesso ha sempre smentito

Posto una rece per chi volesse a tutti costi e magari anche a sproposito leggere dell’altro al di là delle situazioni da cinemino parrocchiale che la pellicola propone

I cosiddetti “sandaloni” realizzati in gran copia per tutto il primo lustro dei gloriosi sessanta, sorti dalle ceneri di ciò che restava della “Hollywood sul Tevere”, costituirono, in ordine di tempo, il primo vero esempio di cinema di genere italiano.
Dopo le prime dignitose confezioni ispirate a episodi storici e dagli incassi al botteghino più che ragguardevoli, la mancanza di una regolamentazione seria del settore determinò, forse per la prima volta nella storia del nostro cinema, il fiorire di una congèrie di produttori cialtroneschi e improvvisati. Il miraggio di guadagni facili secondo l’egida del “piatto ricco mi ci ficco” e di frequentar belle figliuole dietro la promessa di farle ingredire nel dorato mondo del cinema, aveva spinto questo sottobosco squisitamente nostrano, divenuto ormai totalmente fuori controllo, a “raschiare il c.d. fondo del barile”. In altre parole, il genere procedette sino al suo naturale e prevedibile esaurimento in avventure sempre più inverosimili e strampalate con l’unico risultato, analogamente a quanto si verificò anche in seguito, di una completa e definitiva deflagrazione del genere medesimo.
Un tipico esempio “degenerativo” del filone è appunto costituito dal film in esame che reca la firma del gallaratese Guido Malatesta (1919-1970). Onesto mestierante proveniente dalla gavetta, dopo aver diretto negli anni cinquanta scipite commediole del calibro di “Valeria ragazza poco seria” (1958), divenne nel decennio successivo uno dei registi più richiesti e accreditati per operazioni di tal fatta.
Il film segue la sintassi narrativa del cinema popolare di quegli anni: storia semplice e lineare; dialoghi didascalici e ingenui; movimenti di macchina ridotti all’essenziale; primi piani poco insistiti. La colonna sonora è di ispirazione classicheggiante “alla Lavagnino” con abuso di flauti traversi a sostegno di momenti leggeri o rilassati, mentre strumenti a fiato e grancasse andavano a sottolineare scene cruente o di battaglia. Le ambientazioni utilizzavano paesaggi della vicina ex Jugoslavia, come le grotte di Postumia e i laghi del parco nazionale di Tipvlice, locations ideali per fornire, a seconda dei casi e a basso costo, scenografie infernali o paradisiache.
Il soggetto vergato dal Malatesta unitamente al prolifico sceneggiatore italo-ungherese Arpad De Riso ci porta in una non meglio precisata era post-glaciale nella quale l’uomo primitivo, secondo gli autori, era costretto a convivere con mostri preistorici. A noi poveri spettatori di bocca buona e dal precario tasso d’istruzione decisamente poco importa che all’epoca della comparsa dell’uomo i dinosauri si fossero già completamente estinti e che l’ultima era glaciale conosciuta si fosse già conclusa milioni di anni prima. Comunque, la nostra storia ci narra di una tribù nomade adoratrice del “Dio Sole” alla ricerca di una terra fertile nella quale stanziarsi e vivere in prosperità. La pace non durerà però a lungo. I ferocissimi Druti, abitanti delle caverne, compiono una strage e rapiscono le donne per sacrificarle alla loro divinità, la pallida “Dea Luna” (sic!). Fortunatamente Maciste, spuntato praticamente dal nulla, decide di prendere le difese dei nostri eroi e, grazie al suo intervento, giustizia sarà fatta: i Druti saranno sconfitti e il loro capo Fuah ucciso in duello da Aitar, principe dei nomadi. Maciste potrà così ripartire verso altre nuove e mirabolanti avventure, ammonendo i nomadi, nel rabberciato finale, di essere sempre pronti a combattere contro le belve, i mostri ma soprattutto gli uomini (sic!).
Se delle belve non c’è nemmeno l’ombra, i mostri si limitano a un rettilone animatronico uscito da un lago stile “Mostro di Lockness”, neanche fatto malissimo; alcuni serpentoni di gomma dalla faccia da coccodrillo; un varano fugacemente ripreso in teleobiettivo e un dinosauro di cartapesta recuperato dal luna park di qualche fiera paesana. Presenti in gran copia invece gli uomini, viste le ampie schiere di comparse e generici che popolavano il variegato e variopinto mondo di Cinecittà di quegli anni.
Incredibilmente figlio del suo tempo, il film nella parte iniziale ci regala un momento nel quale nemmeno il critico più arrabbiato e politicizzato dell’epoca avrebbe avuto da ridire: mi riferisco al matrimonio di stampo ipermaschilista tra il principe dei nomadi Aitar (uno sciapo Luciano Marin) e la sua eletta sposa Raja (la tedeschina Birgit Bergen agghindata con un’improponibile parruccona rossa), celebrato dal re Dorok. Senza limitarsi a un semplice scambio di sangue come si converrebbe a ogni cerimonia primitiva che si rispetti, il monarca, con voce stentorea, nel richiamare agli sposi i doveri del matrimonio, ama sottolineare il ruolo ultrasottomesso della donna, la quale in caso di disobbedienza al marito, renderà lecito per quest’ultimo darle la morte (immagino a clavate in testa). Non me ne vogliano le amiche lettrici femministe ma tutto ciò era assolutamente “normale” in un paese e in una cultura in cui l’emancipazione femminile era ancora “questa sconosciuta” e in una concezione del focolare domestico dominato dallo strapotere maschile, come Bibbia insegna, il tutto corroborato da una certa morale veterocattolica all’epoca imperante. Si pensi che la “Sanpaolofilm”, storico noleggiatore delle sale parrocchiali, ebbe a liquidare la pellicola con l’arcinoto acronimo “acc.semp.fam.”, ovverosia “film accettabile, semplice e per famiglie”.
Spostando l’attenzione sul versante attoriale, il ruolo di Maciste è affidato al platinato culturista americano Reg Lewis, qui alla sua prima e comprensibilmente unica esperienza cinematografica. Primitivo assai improbabile, ci esibisce oliatissimi e possenti pettorali, ciuffazzo alla Presley e una rasatura iperaccurata che incornicia una faccia da perfetto idiota.
Il bravo caratterista Andrea Aureli riveste invece la parte del terribile Fuah con tanto di barbaccia nera tipo Orco di Pollicino. Cattivo oltre i limiti del verosimile, viene raffigurato dall’ingenuo regista in maniera quasi sempre urlante, sghignazzante e in ogni caso assolutamente sguaiata e delirante.
Tra le interpreti femminili, oltre alla summenzionata Birgit Bergen, attricetta pressochè sconosciuta da noi ma discretamente nota nella sua patria, svetta una giovanissima Margaret Lee, una delle presenze più gradite, almeno per il pubblico maschile, dei B-movies del passato. Truccatissima peggio di una zingara (ma non eravamo nella preistoria?), interpreta Noah, una fanciulla della tribù dei Druti che, ca va sans dire, si innamora perdutamente del superfisicato Maciste il quale deciderà ovviamente nel finale di portarla via con sè. Con buona pace del pubblico delle sale parrocchiali, l’attrice nativa di Volwerhampton è qui copertissima da pellacce di animali. Per vederla discinta in reggicalze e guepière dovremo attendere i successivi films di Franco e Ciccio, mentre le sue gigantesche areole mammarie ci verranno mostrate solo nel decennio successivo nel dileiano “La bestia uccide a sangue freddo” e nei capolavori trash “Gli assassini sono nostri ospiti” del milanese Vincenzo Rigo e soprattutto “La sensualità è un attimo di vita” del tal Dante Marraccini.
Pur con le sue assurdità, “Maciste contro i mostri” rimane uno di quei prodotti in grado di rispondere ai bisogni di quelle platee ingenue e sprovvedute di un’epoca ormai remota che necessitavano, per un’ora e venti minuti, di dimenticare catene di montaggio, lavori alienanti, salari insufficienti e case di ringhiera, a dimostrazione di come quel tanto sbandierato “boom economico” non fosse stato sicuramente alla portata di tutti.

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