Sweet Thing (Alexandre Rockwell, 2020)

Il mio primo film in sala post covid è questo indie movie statunitense che parla di infanzia negata e di contesti familiari disfunzionali.

Girato in un bel bianco e nero sporco dalla grana grossa, che ricorda quello di Clercks.
È la vicenda di un fratello e una sorella che vivono con un padre affettuoso ma alcolizzato, in un contesto di povertà e spesso non accuditi. Quando il padre è sbronzo (frequentemente) la figlia adolescente deve badare a lui e metterlo a letto, ed in più deve accudire il fratello più piccolo. Il padre peggiora sempre più e finisce per essere portato via dalla polizia e preso in carico dai servizi sociali per disintossicarsi.
I bambini finiscono con la madre, da sempre assente e disinteressata a loro, che vive con un energumeno violento e brutale. Dopo aver subito un tentativo di violenza sessuale da parte di quest’ultimo, i bambini lo accoltellano e scappano, assieme ad un ragazzo conosciuto per strada, anche egli cresciuto in un contesto difficile (genitori violenti ed in prigione). Con lui imparano la vita di strada, tra furti e fughe, alla ricerca di un posto che per loro possa essere casa, che sappia accorglerli e dargli la serenità, l’accudimento e l’amore di cui ogni bambino ha bisogno.

Rispetto ad altri film del genere non viene dato troppo risalto in chiave pulp alla durezza della vita che il destino ha riservato ai due ragazzi; se mai il tutto è reso con una sorta di ruvidezza a livello visivo, che mette tristezza allo spettatore e lo fa soffrire per le ingiustizie che i personaggi vivono sulla propria pelle.

Bell’opera corale, frutto dall’affiatamento di una famiglia unita che ha voglia di raccontare la vita delle tante famiglie disfunzionali dell’america che invece non ce la fa: i due protagonisti e la loro mamma sono infatti interpretati dai figli e dalla moglie del regista.

Un’opera toccante, speriamo che arrivi anche sugli schermi italiani.