vado controcorrente e dico che dei tre il mio preferito è quello di Vadim, quindi Malle e per ultimo Fellini. Metzengerstein mi è piaciuto proprio per “l’erotismo estetizzante” di cui parla (in tono sprezzante) il Mereghetti. La contessa Frederica di Jane Fonda, crudele, perversa, maligna, idealmente imparentata con i personaggi desadiani, era una sfida ostica per la graziosa bellezza della Fonda, che invece sfodera tutta la sua stoffa d’attrice, facendosi carico del ruolo. I costumi sono splendidi, in teoria ottocenteschi, ma segnati da un gusto un po’ fantastico e senza tempo che astrae la contea di Metzengerstein dallo spazio-tempo. Belle anche le musiche di Jean Prodromidès, tetre, ossessionanti, lugubri, una sorta di proto dark ambient. Vadim sa essere estremamente elegante, come al suo solito, e ricco di simbolismi ed allegorie misteriose, nonostante la tematica non sia nelle sue corde. Mi ha ricordato un po’ le atmosfere alla Corman/Price.
Più asciutto ed intellettuale l’episodio di Malle, aiutato grandemente dalla prova superba di Delon. La sua partita a carte con una Bardot corvina è impressionante, fatta anche di lunghi silenzi (senza musica) dei quali Malle non ha alcun timore, anzi sembra evidenziarli il più a lungo possibile, sapendo che lo spettatore sta trattenendo il fiato assieme ai protagonisti fino all’asfissia.
Fellini dei tre è quello più pretenzioso e sborone, IMHO. Imbastisce il suo consueto circo visionario e onirico (anche se stavolta si tratta più di incubo che di sogno). Set, fondali, scenografie, luci son tutti posticci, volutamente artefatti, un continuo rimbalzare tra realismo (che non c’è) e metacinema. La musica di Nino Rota, per quanto pregevole, spezza un po’ il velo di inquietudine che le musiche di Vadim e Malle invece avevano mantenuto, riportando l’episodio di Fellini su una chiave più grottesca, surreale (e romagnola). C’è un’ironia più sottile in Toby Dammit che naturalmente manca in Vadim e Malle, ma c’è pure il plagio del povero Bava.
Opera assai stimolante, perché mette in evidenza come tre cineasti, dediti solitamente a ben altri registri, non si tirino indietro davanti alla sfida di proporre “altro”, riuscendovi egregiamente, dove più, dove meno, e conservando grandiosamente lo spirito più vero delle pagine di Edgar Allan Poe, anche laddove (Fellini) i fatti vengono abbastanza stravolti rispetto alle pagine originali. Oggi un’operazione del genere sarebbe impensabile (e non solo perché trovare tre autori come Vadim, Malle e Fellini è impresa ardua).