Darbareye Elly (About Elly) - Asghar Farhadi

Orso d’argento a Berlino per il regista Asghar Farhadi, anche sceneggiatore, e in effetti la storia della scomparsa di Elly durante un w-e al mare nell’Iran moderno è girata molto bene, e tutti gli attori sono convincenti, soprattutto nel rappresentare le paure della gente comune rispetto ai dogmi del regime. Il problema è che, pur avendo molti riferimenti all’Avventura, alla fine la storia in se mi è parsa traballante, o forse era il soggetto che non m’interessava, lasciandomi con un bel “e quindi?” mentre scorrevano i titoli di coda. Insomma, per me una delusione, con l’aggiunta del senso di smarrimento per le lodi sperticate che i critici gli hanno concesso un po’ ovunque. Ma già il fatto che Ahmadinejad abbia voluto il film come rappresentante dell’Iran agli Oscar, mi lascia molto perplesso e mi rassicura sulla mia opinione.

Non l’avrei mai pensato possibile, ma per una volta mi trovo concorde con la rece de Il Giornale:

“Premiando il film con l’Orso d’argento, la giuria del Festival di Berlino - e da questo si capisce perché l’emigrato ha scelto la Germania - vi ha voluto vedere una critica della società iraniana oppressa dal regime e bla, bla, bla. Le giurie sono sempre liete quando possono illudersi di opporsi a un’‘oppressione’. Mai che s’accorgano di alimentare registi astuti, più che bravi, a caccia di ingenue ‘tutele’. Per capire come la censura iraniana ha inteso, più chiaramente, ‘About Elly’ e l’ha lasciato passare, va tenuto presente che la matrona borghese di Teheran non è più intelligente e rispettabile, non è meno intrigante e disinvolta, che la matrona di Milano o Roma. Il potere femminile in Iran è una realtà, sotto l’apparente sottomissione all’Islam, i cui guardiani avranno giudicato il film di Fahradi un monito a tante brave donne convinte che a loro, non ad Allah, spetti decidere i destini altrui. Inoltre il film affronta l’umiliazione nazionale rappresentata dall’emigrazione di massa: il personaggio del laureato che si è stabilito in Germania non è certo un eroe: è un fallito che per giunta ha sposato un’infedele (senza nemmeno riuscire a tenersela). Il buono della vicenda non è dunque lui, ma il fidanzato rimasto in patria e fedele ai principi religiosi, anche per questo alla lunga giudicato noioso dalla maestra. E’ nel suo dolore che culmina il film, anche se ci poteva accadere una buona ora prima. Tutto il prologo è sfoggio di cinefilia, ideato dal regista (e sceneggiatore) per sfruttare, nel mercato interno e per la dabbenaggine dei critici esterni, spunti tratti dal ‘Grande freddo’ di Kasdan e dall’‘Avventura’ di Antonioni.” (Maurizio Cabona, ‘Il Giornale’, 18 giugno 2010)