Copio e incollo dal sito: http://www.vicolodelcinque.it/storia3.htm riguardo all’altra storica diatriba che aveva visto protagonista Irving
LO STORICO SENZA DOCUMENTI
Hobsbawm sul processo Irving contro Lipstadt
di Antonio Iovane
Il processo che ha visto fronteggiarsi lo storico Irving e la studiosa Lipstadt non avrebbe ottenuto tanta risonanza se Eric J. Hobsbawm non avesse espresso, a riguardo, il proprio eminente punto di vista. La diatriba, in sé, è infatti poca roba, una scaramuccia tra semistorici (la Lipstadt è una storica part-time, Irving è proprio un mezzo storico) su una questione di diffamazione; tuttavia Hobsbawm ha saputo lucidamente smascherare quanto, a prima vista, sembrerebbe riguardare più le competenze dei giudici che degli storici: la capacità della politica di condizionare lo studio delle fonti storiche, e non, si badi bene, la storia. Ciò che veramente è in discussione non è la storia, ma lo studio documentato della storia contro la sua accettazione fideistica.
Irving contro Lipstadt
La vicenda è semplice: David Irving ha citato per diffamazione Deborah Lipstadt e la sua casa editrice, la Penguin Books, in quanto, tacciandolo di essere un “negatore dell’Olocausto” e un bugiardo, avrebbe leso i suoi interessi economici e la sua credibilità di storico. L’oggetto del contendere sarebbero state le tesi di Irving riguardo l’assenza del documento scritto che dimostri la volontà di Hitler di avallare la cosiddetta “soluzione finale”. Da qui la tesi di Hobsabwm:
“[…] dove mancano le prove o dove i dati sono pochi, contraddittori e indiziari, non si è in grado di smentire un’ipotesi, per quanto improbabile. Le prove possono mostrare in maniera conclusiva, contro coloro che lo negano, che il genocidio nazista è davvero accaduto, ma benché nessuno storico serio dubiti che la “soluzione finale” fosse voluta da Hitler, non possiamo dimostrare che egli abbia davvero dato un ordine specifico in tal senso. Dato il modo di operare di Hitler, un tale ordine scritto è improbabile, e non è stato trovato da nessuno. Quindi […] non possiamo, senza elaborati argomenti, respingere la tesi avanzata da David Irving”(1)
Nella sua rubrica settimanale su L’Espresso, Giorgio Bocca non ha perso tempo per tuonare contro il revisionismo e per tacciare di “cretineria” ogni tentativo di rivedere la storia attraverso i soli documenti scritti. Per l’occasione se l’è presa con Hobsbawm, colpevole, a suo dire, di aver compiuto, con le parole appena citate, un’opera di legittimazione del negazionismo. Ma la storia, si domanda il commentatore, è fatta solo di documenti scritti?! Se uno la mattina non scrive che ha fatto colazione vuol dire forse che è a digiuno?! E continua:
“La discussione revisionista sull’Olocausto è semplicemente cretina come lo è in genere la pretesa scientificità degli storici di professione. È semplicemente cretino pensare che i documenti siano la base indiscutibile della storia. Come tutti sanno o dovrebbero sapere, i cosiddetti documenti sono in gran parte scritti a futura memoria, cioè a futura buona memoria di chi li scrive. E il fatto che ci siano o non ci siano non annulla ciò che nella storia è accaduto. Se non esistono documenti da cui risulta che personalmente Attila e Tamerlano ordinarono degli eccidi, i massacri che ci furono non vengono cancellati […]”(2)
Discorsetto sul metodo
Con quel solo editoriale Bocca ha ritenuto di aver risolto uno degli aspetti più controversi della storiografia: quello delle fonti. Ma nel considerare i documenti, il giornalista ha preso in considerazione solamente quelli scritti, senza badare al dibattito storiografico circa la loro suddivisione. La storia, sostiene, non si basa solo sui documenti scritti: “se non c’è un documento a firma di Napoleone sulla strage dei prigionieri durante la campagna di Egitto resta vero che quella strage ci fu”, e su questo nulla da ridire. Ma che cos’è, quindi, che ci ha informati di quell’eccidio, se non i documenti scritti? Che cosa, se non la firma di Napoleone? La risposta è semplice: i documenti non scritti. I documenti scritti costituiscono solo una piccola sezione di fronte al magma delle fonti. La ricostruzione delle vicende politicamente scorrette legate ad Attila e Tamerlano non si basa sull’invenzione, ma, checché ne dica Bocca, sui documenti, da intendersi, crocianamente, come tracce del passato, che non si limitano alle sole fonti scritte, e questo perché “Nessun egittologo ha visto Ramsete; come nessuno specialista delle guerre napoleoniche ha udito il cannone di Austerlitz”(3). I documenti possono essere di vari generi, il dibattito sulla loro classificazione ha caratterizzato sostanzialmente la storia della storiografia ma non intendiamo riproporlo in questa sede. È sulla loro necessità che vogliamo porre l’accento:
“Langlois e Seignobos scrivevano nel 1898 che “senza documenti non vi è storia”. Samaran nel 1961 faceva eco: “non c’è storia senza documenti” […]. Lucien Febvre scrisse di considerare “la storia come studio condotto scientificamente e non come scienza”; con l’espressione “studio condotto scientificamente” egli intendeva studio condotto sulla base di una documentazione diligentemente raccolta e criticamente valutata. Lo storico insomma necessita sempre di disporre di documenti di appoggio per la sua ricostruzione”(4)
Questi “cretini”, per adoperare le categorie di Bocca, hanno insistito sulla priorità della certificazione documentaria rispetto alla deformazione politica preconcetta che guida molti studiosi nei loro ragionamenti. Allo storico spetta il compito di vagliarne l’attendibilità e di scegliere quali, tra i dati documenti, meritino in misura maggiore di essere considerati. Quello che i critici di Hobsbawm hanno messo in risalto è la presunta univocità della sua idea di storia, di una storia, cioè, corroborata dai soli documenti, scritti e non. Rincresce dirlo, ma la differenza tra ciò che sostiene Irving e quel che sostiene la Lipstadt è proprio nel possesso, da parte del primo, di una serie di documenti a prova del fatto. In quella sede, Irving non aveva negato l’Olocausto, ma semplicemente affermato l’inesistenza del documento atto a comprovare la responsabilità diretta di Hitler nel determinare la “soluzione finale”. E quindi, in questa polemica già sterile, una persona ragionevole dovrebbe propendere per le tesi di Irving, storico da interregionali le cui simpatie filonaziste sono piuttosto note, sebbene i nostri sentimenti si dirigano verso tutt’altri oggetti. Questo non vuol dire affatto negare l’Olocausto, ma orientarsi nel campo delle possibilità.
La negazione dell’Olocausto
A meno che non si creda in una congiura intergalattica a cui avrebbe preso parte una fetta non trascurabile della popolazione umana (che è ciò che i negatori della Shoah si trovano, per forza di cose, ad ammettere, ipotesi interessante per un X-files), noi sappiamo che l’Olocausto c’è stato, sappiamo cosa è stato, sappiamo i meccanismi attraverso i quali è stato realizzato. Conosciamo il numero approssimativo dei morti, conosciamo i volti dei carnefici e le loro maniere. Ma ciò da cui dobbiamo guardarci, una volta che i particolari si definiscono meglio, è l’assenza di una verifica storica documentata. La differenza tra fede e studio scientifico di un fenomeno è proprio nella attendibilità di quanto si intende dimostrare. È per questo che, senza giudicare continuamente e ricercare smentite e conferme sulla base dei nuovi documenti, si corre il rischio di anteporre il piano della fede a quello dello studio “condotto scientificamente”. Così, chi vorrà trasmettere alle prossime generazioni tutto l’orrore dell’Olocausto, rischierà di trovarsi davanti dei giovani che non vogliono credere per fede, ma che necessitano, piuttosto, di prove. Ora che anche gli ultimi testimoni diretti della “soluzione finale” stanno via via scomparendo, si fa sempre più necessario provare attraverso le fonti documentarie.
“Il caso “Irving contro Lipstadt” riguarda la più emotiva di tutte queste questioni, la cosiddetta “negazione dell’Olocausto”. Eppure, questa stessa frase appartiene a un’era in cui la condanna morale ha rimpiazzato la storia. […] nessun serio storico negherebbe che ci sono lacune o incertezze - circa fatti, numeri, luoghi, motivi, procedure e molto altro ancora - che circondano la storia del genocidio”(5)
L’Olocausto non deve trasformarsi in un mito, e lo studio della Shoah non deve basarsi sulla difesa di una versione consolidata della verità. I miti legittimanti, o quelle che Auerbach chiama “figure”(6), non sono il pane degli storici; anche se un condizionamento politico risulta, talvolta, inevitabile, i documenti devono essere al primo posto nella gerarchia dei condizionamenti. Se un documento revisionasse infallibilmente una verità storica accertata, lo storico avrebbe il dovere deontologico di correggere le versioni non corrette. Questo è l’aspetto che fa, della storia, una materia viva e in continuo movimento: sono l’interpretazione e il dubbio basati su dati reali che alimentano una visione critica del mondo, senza la quale non ci avvicineremmo d’un solo passo alla comprensione della realtà.
Il caso Irving contro Lipstadt, nonostante il giudice abbia per ora dato ragione al primo, dimostra una sola cosa: ovunque si voglia andare occorre sempre portarsi dietro i documenti. E questo sia di lezione per gli storici.
NOTE
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Eric J. Hobsbawm, Se la storia è soggetta alla politica, su La Repubblica del 28 marzo 2000
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Giorgio Bocca, Quant’è cretino il revisionista che preferisce le carte ai fatti, in L’Espresso del 13 aprile 2000
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Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino 1969, p.58
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Carlo M. Cipolla, Introduzione allo studio della storia economica, Il Mulino, Bologna 1993, p.34
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Eric J. Hobsbawm, Se la storia è soggetta alla politica, su La Repubblica del 28 marzo 2000
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“La provvisorietà degli avvenimenti nella concezione figurale è […] radicalmente diversa da quella implicita nella concezione moderna dell’evoluzione storica: mentre in questa la provvisorietà degli avvenimenti è oggetto di una interpretazione progressiva e graduale sulla linea orizzontale, mai interrotta, degli avvenimenti successivi, in quella l’interpretazione è sempre oggetto d’indagine dall’alto, verticalmente, e i fatti non sono considerati nel loro nesso ininterrotto ma staccati l’uno dall’altro, visti isolatamente, in considerazione di un terzo fatto promesso o ancora avvenire. E mentre nella concezione moderna dello sviluppo il fatto è sempre autonomamente assicurato, ma l’interpretazione è decisamente incompleta, nell’interpretazione figurale il fatto resta sottoposto a un’interpretazione che nel complesso è già assicurata: essa si orienta secondo un modello del fatto che è riservato al futuro e che finora è stato soltanto promesso” (Eric Auerbach, Figure)