Il giardino dei Finzi Contini (Vittorio De Sica, 1970)

http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=10278

Anno 1970
Regia Vittorio De Sica
Cast Lino Capolicchio, Dominique Sanda, Fabio Testi, Helmut Berger

Il film di Vittorio De Sica è la fedele trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Giorgio Bassani. L’aristocratica famiglia ebrea dei Finzi Contini vive a Ferrara, in una bellissima villa circondata da un grande parco. I giovani rampolli Micol e Alberto e i loro amici Giorgio e Giampaolo, passano le giornate tra gli impegni della scuola,le partite a tennis e i primi turbamenti sentimentali. La loro spensierata e dorata esistenza viene travolta dallo scoppio della seconda guerra mondiale. La famiglia Finzi Contini così come tutta la comunità ebraica di Ferrara, viene arrestata e deportata dai nazisti

DVD Medusa

Audio ITA mono
Sottotitoli ITA
Video 1.85:1 16/9
Durata 1h30m09s
Extra Trailer,filmografie, interviste a: Lino Capolicchio (13min), Ugo Pirro (13min), Manuel De Sica (9min)

Nonostante sul retro del dvd appaia la scritta “fedele trasposizione cinematografica del romanzo di Bassani”, secondo lo scrittore ferrarese ne scaturì una versione del tutto diversa rispetto a quella originaria.Ne nacquero una vertenza giudiziaria e tante polemiche. Il pretore di Roma dispose che nei titoli di testa del film fosse scritto “liberamente tratto dal romanzo di Giorgio Bassani”
La villa dei Finzi Contini è stata reperita a Monza,non avendone gli organizzatori trovata una a Ferrara che rappresentasse quella immaginata da Bassani
Premio oscar nel 1972 come miglior film straniero

In effetti è abbastanza fedele… fino alla parte finale sulla deportazione, che nel romanzo semplicemente non c’è.

Visto al liceo…me lo ricordo veramente brutto, didascalico…uno dei peggiori De Sica. Degli attori giovani quello che se la cava meglio è Testi, non bravissimo ma funzionale, invece la scelta di Helmut Berger secondo me fu un miscasting clamoroso. Quel capolavoro vero che è il romanzo di Bassani si merita un altro film.

Non mi è mai piaciuto e la recente visione mi ha confermato l’impressione.
Non mi prende, non va da nessuna parte, lo trovo sopravvalutato e svogliato. Il romanzo ha ben altro spessore, un senso del dramma molto più concreto e un’amarezza molto più struggente.
Qui per me il film non decolla mai, non basta qualche piccolissimo guizzo per elevarlo.
Secondo me andrebbe pesantemente ridimensionato.

Fu l’ultimo successo internazionale per il regista, però non è fra i suoi lavori più riusciti. Elegante, ma alquanto inerte. Degli attori, il migliore è naturalmente Romolo Valli, e funzionano bene anche Capolicchio, la Sanda e perfino un insolito (rispetto ai suoi ruoli abituali) Testi. Berger, invece, che pure si impegna, mi ha sempre fatto un po’ ridere: come fai a prendere uno che ha l’aspetto di un “dio ariano” per il ruolo di un personaggio ebreo? È come se Ilona Staller interpretasse Madre Teresa…

visto una sola volta tantissimi anni fa…complessivamente ne ho un buon ricordo…mi piacerebbe rivederlo in un buon bluray (magari italiano e fatto come si deve una volta tanto)…chiedo troppo ?

Qui i dvd esteri: www.dvdbeaver.com/film3/dvd_reviews54/garden_of_the_finzi_contini.htm L’Arrow ha il medesimo master (e gli stessi extra…) dell’edizione Medusa, ma la resa mi pare leggermente superiore. Ad ogni modo, un br sarebbe gradito. Anche se il Maestro (De Sica lo era eccome…) lo ha girato un pò “con la mano sinistra”, ricordiamolo…
P.S. Su un vecchio “Nocturno”, che riprendeva un’intervista fattagli da Giusti nell’86, Demofilo Fidani raccontava un aneddoto spassoso: come De Sica gli “rubò” Testi (che fu un rimpiazzo: per il suo personaggio, De Sica voleva Volontè…)! E dopo “Il giardino…”, “big Fabio” non fece più film col buon Demofilo…

Ci sono alcune, piccole, cose molto belle in questo film: l’uso penetrante e intenso di alcuni p.p., le vedute ( purtroppo limitate) su una Ferrara dolce e dolente, la rarefazione dell’ultima sequenza.

Ma le critiche feroci ( tra l’altro ad un film, inspiegabilmente, iperpremiato: basti ricordare l’orso d’oro a Berlino e l’Oscar come film straniero) sono corrette. Se è vero che il cinema non deve essere per forza fedele all’opera letteraria alla base ( chissà se è poi questo il motivo che ha spinto Bassani a ritirare la propria firma dalla sceneggiatura), va detto che De Sica commette l’errore di condensare in un’ora e mezza di film tutte le scene e i dialoghi deflagranti del romanzo, senza però aver creato primariamente la tensione tra i protagonisti, senza averne mostrato i rapporti, gli amori impossibili e negati dall’arrivo della morte. Soffocando il film, mozzandogli il respiro. In questo modo, tutto scorre senza emozionare mai ( laddove nelle pagine di Bassani il nodo alla gola era costante) e, tutto sommato, il film funziona di più quando ‘inventa’, ad esempio nelle parti finali sull’anticamera della deportazione, sicuramente didascaliche, ma efficaci.

Il cast è vario e spesso sfasato ( Berger, non proprio ebreo nei tratti, come il malato Alberto Finzi Contini…), ma la Sanda è forse la miglior Micol possibile. Anche se, purtroppo, il doppiaggio che tenta di ricreare, con perfetta dizione, sia la parlata alta finzicontiniana, che le cadenze ferraresi o milanesi degli altri personaggi, toglie qualsiasi spontaneità ai personaggi.

Inutile dirlo, ma il romanzo di Bassani ( uno dei capolavori della letteratura italiana postbellica) resta un’elegia dell’amore e del morire per amore, che lo schermo difficilmente può rendere senza scegliere strade narrative più coraggiose di quelle usate da De Sica.

Per me invece la sequenza finale è terribile e posticcia.
Più che rarefatta la definirei inconsistente.

Può essere, io la ricordo emotivamente riuscita. Mi è sembrato uno dei pochi momenti in cui il film, reinterpretando il romanzo, riuscisse a trovare una sua via.

Poi, lo ripeto da amante del libro di Bassani, questo film è un fallimento.

Voglio rifarmi al primo principio della strana vicenda che mi accingo a raccontare: e cioè a quell’ormai lontanissimo 1963 in cui la «Documento Film » si assicurò i diritti cinematografici del Giardino dei Finzi-Contini.
Era stato Valerio Zurlini a sollecitare all’acquisto la casa produttrice. E quest’ultima, non appena l’acquisto venne perfezionato, si affrettò ad affidare a Zurlini stesso, già designato come regista, il compito di preparare la sceneggiatura del futuro film.
Zurlini si pose immediatamente all’opera. Chiamato a collaborare lo sceneggiatore Salvatore Laurani, in breve tempo mise insieme un primo copione. Mi fu dato da leggere. Ma che diavolo potevo dirne? Invece che badare al romanzo e a quello soltanto, Zurlini e Laurani avevano attinto copiosamente a tutti i miei altri libri, dalle Cinque storie ferraresi agli Occhiali d’oro. Nel giardino di casa Finzi-Contini, attorno al tennis, si davano convegno, insomma, oltre ai personaggi del romanzo, Elia Colcos, il medico protagonista della Passeggiata prima di cena, la vecchia maestra socialista degli Ultimi anni di Clelia Trotti, il dottor Athos Fadigati, il distinto professionista omosessuale che è al centro della storia narrata negli Occhiali d’oro, e così via: con effetti, talora, persino un po’ buffi.
Di fronte a un’operazione del genere, a cui del resto ero pronto a riconoscere cordialmente tutta la nobilità morale e la generosità di propositi che in fondo l’avevano ispirata (che cosa avevano voluto, Zurlini e Laurani, se non prendere le mosse dal sottoscritto e dai suoi libri per produrre una sorta di affresco sulla tragedia ebraica in toto: ferrarese, italiana, e mondiale?), la mia reazione fu di sincera perplessità. Fortuna volle tuttavia che non ci fosse bisogno di perdere troppo tempo in discussioni.
La produzione stessa non pareva convinta. E per il momento si rinunciò a metter in cantiere la pellicola.
Negli anni che seguirono, Zurlini e la Documento ritornarono più di una volta sul progetto, mai accantonando la prima sceneggiatura Zurlini-Laurani, sia ben chiaro, però chiamando via via a modificarla nuovi sceneggiatori. Non ne conosco tutti i nomi. So dell’intervento, a un certo punto, di Tullio Pinelli, che ebbe la cortesia di consultarmi. Se ne occupò più tardi anche Franco Brusati, egli pure ritornando senza gran frutto su quanto avevano fatto gli sceneggiatori venuti prima di lui. Fino a che, attorno al 1966, Zurlini abbandonò definitivamente la partita, per volgersi ad altri pensieri e ad altre imprese.
*
Rimasta sola, la Documento non rinunciò affatto all’idea di trarre un film dal mio romanzo. All’inizio del 1970 i produttori si rivolsero a Vittorio De Sica, il quale accettò di buon grado l’incarico. Cercarono anche me, chiedendomi se avrei acconsentito a collaborare: ma non già alla stesura della sceneggiatura vera e propria, a cui avrebbe provveduto «da solo» - dissero -, uno sceneggiatore di loro fiducia, bensì, in un secondo tempo, alla revisione dei dialoghi. Interessato, come anche io ero, alla realizzazione del film, non ebbi alcuna difficoltà a rispondere di sì. E mi disposi fiduciosamente a leggere la nuova sceneggiatura.
Non appena, di lì a un po’, ebbi in mano il copione (il quarto in ordine di tempo), il mio disappunto fu grande. Vittorio Bonicelli, lo specialista scelto dalla Documento, non so se per consiglio della casa produttrice, o se per iniziativa propria, si era astenuto dal tentare alcunché di nuovo. Invece che ripartire da zero, anche lui si era basato sulle sceneggiature precedenti, al fine di ricavare qualcosa che conservasse il meglio e scartasse il peggio. Il mio giudizio sul suo lavoro di ricucitura non poteva essere che negativo: e in tal senso mi espressi immediatamente sia con la Documento sia con Bonicelli stesso, il quale dal canto suo, da quell’onesta e intelligente persona che è, riconobbe subito che la sceneggiatura doveva essere rifatta di sana pianta. E fu così che la Documento, d’accordo con Vittorio De Sica, si decise a incaricare il sottoscritto e Bonicelli a ripercorrere, da soli e in coppia, la strada che gli Zurlini, i Laurani, i Pinelli, i Brusati, già avevano percorso in passato con tanta sfortuna.
*
Quando, dopo qualche settimana, io e Vittorio Bonicelli consegnammo alla Documento la nostra sceneggiatura, restammo intesi con la produzione sui punti seguenti:

  1. Che il nostro copione dopo una revisione «tecnica» a cui avrebbe provveduto una non meglio identificata, ennesima «persona del mestiere», ci sarebbe stato restituito «di lì a pochi giorni» perché noi vi apportassimo gli ultimi ritocchi e lo completassimo in alcune parti rimaste incompiute e in sospeso.
  2. Che, in ogni caso, il racconto cinematografico sarebbe stato farcito, a intervalli di varia durata, con la rappresentazione ritornante, ossessiva, da girarsi in bianco e nero (il colore della cronaca documentaria dei telegiornali, della verità nuda e cruda, senza veli…), del rastrellamento degli ebrei ferraresi avvenuto dopo l’8 settembre 1943: rastrellamento a cui avrebbe assistito, nascosto e non visto, Giorgio, il protagonista maschile del film, il futuro autore del romanzo colto da giovanotto. L’espediente narrativo dei flashes ritornanti in bianco e nero era stato riconosciuto necessario per varie ragioni. In primo luogo, perché avrebbe in qualche modo restituito la struttura del romanzo, che, come si sa, è costruito su due piani temporali distinti, quello del presente (l’iniziale gita a Cerveteri, che cade una domenica d’aprile del 1957), e quello del passato (l’annata 1938-1939); ma, soprattutto, perché avrebbe sottratto il film agli inevitabili pericoli di un piatto, noioso didascalismo da fumetti.
    Contrariamente agli accordi presi, la sceneggiatura ci venne restituita quasi due mesi più tardi (io l’ebbi, per la precisione l’8 luglio) a lavorazione del film, se non ultimata, estremamente avanzata: di modo che qualsiasi ulteriore dissenso diventava impossibile, puramente platonico. Comunque, la revisione «tecnica» attuata dalla misteriosa «persona del mestiere» cara alla Documento (lo sceneggiatore Ugo Pirro, come io venni solo allora ad apprendere) aveva modificato radicalmente la sceneggiatura Bassani-Bonicelli.
    Del progetto di rispettare nel film i due differenti piani temporali del romanzo, non era stato tenuto il minimo conto. E la nuova sceneggiatura, inzeppata di tirate didascaliche estraneissime allo spirito del libro, correva ormai decisamente su un solo piano, quello del passato: con l’effetto, oltre tutto, di ridurre la figura di Giorgio, il protagonista maschile, ad un ruolo di scarso per non dire nullo significato. Così come era stata arrangiata, la sua storia risultava banale, sentimentale, qualsiasi: da non comprendere per qual motivo fosse apparso necessario dedicarle un lungo film.
    Molte scene soppresse (i flashes del sogno di Giorgio; la doppia visita di Giorgio Malnate al postribolo di via delle Volte; le passeggiate di Giorgio e Malnate lungo le viuzze medievali della città, a notte alta; la visita di Micòl al cimitero israelitico del Lido a Venezia, ridotta a un troncone insensato); molte aggiunte (quella della pensione di Grenoble, tanto per fare il primo esempio che mi viene alla mente); e non starò, adesso, a fare l’elenco completo delle une e delle altre. Ma ciò che più conta, la successione delle scene apparve profondamente sconvolta. Il viaggio in Francia, a Grenoble, di Giorgio, accadeva in un punto diverso dal racconto cinematografico: assumendo ovviamente, a parte le solite interpolazioni didascaliche, lì, per giunta, particolarmente cervellotiche, tutt’altro peso e significato.
    I dialoghi abbondantemente alterati: con, giustapposte, discorse o sentimentali o melodrammatiche, o spiegative. Bastava guardare a pag. 68 della revisione-Pirro. Nel copione Bassani-Bonicelli a pag. 51, la scena finiva con la battuta di Alberto: «No, io non esco». Nella revisione-Pirro il dialogo continuava. Così: «No, io non esco…E poi, per andare dove?..Se uno potesse scegliersi le facce che deve incontrare per strada…allora sì…Io, invece, ogni volta che sono uscito, mi sono sentito spiato…invidiato…MALNATE: Qui, invece, le facce le scegli tu…è questo che vuoi dire? ALBERTO: No…non proprio…Qui siamo sempre in pochi…non mi sento mai aggredito…Lo so a cosa pensi…pensi che mi manca la gioia di vivere …Ma chi me la può dare?». Aggiunta, questa, che, a parte ogni altra considerazione, modifica profondamente il carattere di Alberto, quale appariva nel romanzo e nel copione Bassani-Bonicelli, trasformandolo in quello di un verboso illustratore della propria nevrosi.
    Le pezze d’appoggio storico-documentarie, di cui spesseggiava la revisione-Pirro, riuscivano sempre fastidiose e fuorvianti. Il gag dell’avanguardista travolto dalla bicicletta di Giorgio, a pag. 143; o l’altro della bandierina con sopra la svastica che la bicicletta di un ragazzetto di passaggio inalberava sul parafango anteriore (gag neanche inventato, d’altronde esiste in un mio recente racconto, Una corsa ad Abbazia, ben noto a De Sica); o l’altro ancora dell’allarme aereo che suonava lugubremente durante il funerale di Alberto, a pag. 309: tutti questi piccoli eventi avevano una palese funzione insegnativa. Equivalevano ad altrettanti ammicchi, a strizzatine d’occhio messe lì per erudire il pupo, cioè il pubblico. C’è da dire inoltre che tali pezze d’appoggio riuscivano talora destituite di qualsiasi fondamento di verità oggettiva. In Italia, prima del 1943, dell’8 settembre 1943, la caccia all’ebreo non fu mai praticata. La cattura di Bruno Lattes, in un cinema (!), subito dopo la battaglia di Tunisia, a pag. 315 della revisione-Pirro, non presentava nessun carattere di credibilità. Costituiva un vero e proprio falso, da respingersi sotto qualsiasi profilo.
    Ma ciò che più dispiacque a me, personalmente, fu che ci si comportasse nei confronti di alcuni miei personaggi con la libertà senza controllo che a malapena è tollerabile quando si mettono in scena dei pupazzi di fantasia, delle teste di legno pure e semplici. Benché gran signori, non erano mica dei Rothschild, i Finzi-Contini, da intrattenere relazioni per lettera con facoltose parentele internazionali! Quell’Isac e quella Rachel, evocati a pag. 278 e seguenti della revisione-Pirro, davano dei Finzi-Contini una immagine distorta, sbagliata, e sotto sotto perfino denigratoria. Bruno Lattes, un personaggio che, presente nel Giardino dei Finzi-Contini, torna anche in altri miei lavori (Gli ultimi anni di Clelia Trotti, Una corsa ad Abbazia, La ragazza dei fucili), non finì in Germania, nelle camere a gas, come si desumeva dalla revisione-Pirro, bensì potè riparare in America, donde tornò nel 1945 per rivisitare Ferrara, la sua città natale.
    Ma il colmo fu raggiunto facendo partire il padre di Giorgio verso i campi di sterminio nazisti. Capisco che riuscisse comodo sistemarlo così, giusto per fargli dire, alla fine, a Micòl (e al pubblico), che Giorgio, il futuro autore del Giardino dei Finzi-Contini, si era salvato.Ma lui, intanto, il futuro romanziere di successo, il futuro patetico narratore dei propri amori adolescenti con la bionda Micòl Finzi-Contini, che figura ci stava facendo? Tagliando la corda, e già rassegnandosi fin d’allora a impastare il proprio inchiostro di scrittore con le ceneri del babbo, non stava facendo, per caso, la figura del porco?

Alla lettera d’accompagnamento della Documento, nella quale mi si chiedeva di esprimere il mio parere circa la revisione-Pirro e di avanzare tutte le riserve che avessi creduto opportune (il film, ripeto, era già quasi bell’e fatto: impossibile ormai ogni intervento efficace), non risposi direttamente. Mi limitai a chiedere alla Documento, tramite l’avvocato Franco Reggiani, che escludesse il mio nome dalla lista degli sceneggiatori. La revisone-Pirro aveva grandemente alterato la sceneggiatura Bassani-Bonicelli. Di più: il progetto di farcire il racconto cinematografico con flashes ricorrenti del rastrellamento degli ebrei ferraresi, accaduto dopo l’8 settembre 1943, era stato con ogni evidenza accantonato, d’autorità. Dunque non era giusto che io sottoscrivessi, per forza, ciò che non mi apparteneva.
A questa lettera dell’avvocato Reggiani, la Documento fece orecchie da mercante. Mentre, nel corso dei mesi successivi, il film veniva portato a termine, completo di montaggio, doppiaggio, mixaggio, eccetera, nessuno si faceva vivo per corrispondere alla mia richiesta di non figurare tra gli sceneggiatori, o per lo meno di discuterla. Verbalmente, per interposte persone, e una volta anche per iscritto, ci si limitò a consigliarmi di aspettare. Prima vedessi il film. Era riuscito magnificamente. Ne sarei rimasto contentissimo…
Il film l’ho visto soltanto alla fine del mese scorso, alla presenza del magistrato. E poiché nel frattempo il magistrato ha dato ragione a me, e torto alla Documento e a Vittorio De Sica, ecco qui, con animo ormai sereno, quello che penso di un’opera dalla quale la giustizia ha così opportunamente disgiunto il mio nome.
Che essa sia ricavata in qualche modo dal mio romanzo è contestabile, né io mi ero mai sognato di contestarlo. Ma che però lo tradisca, il mio romanzo, nella sostanza e soprattutto nello spirito, nessuno, credo, potrà negarlo.
Micòl. Uno dei ragazzi che frequentano il tennis di casa Finzi-Contini (mi pare Carletto Sani), dice a un certo punto che si tratta di una ragazza «imprevedibile». Ma lo dice lui, bontà sua: perché nella realtà filmica il carattere di Micòl Finzi-Contini non offre niente di imprevedibile. E’ una signorina abbastanza qualunque, la Micòl Finzi-Contini del film di De Sica, che più che prodursi in qualche corsetta, in qualche risatina piuttosto melensa, in qualche noiosa schermaglia verbale (fra l’altro non sa nemmeno giocare al tennis, non sa nemmeno come riparare a dovere la racchetta dalla pioggia!), di meglio non sa fare. Non riesce neanche sufficientemente sexy, diciamo la verità.
Alberto. Non è un carattere. I suoi rapporti con la sorella, con l’amico Malnate, con Giorgio, rapporti la cui ambiguità costitutiva, nel romanzo, uno dei punti, penso, di più sottile interesse psicologico, non saltano assolutamente fuori. Belle vestaglie, ottimi pullover, pantaloni bianchi impeccabili, pallori, sudori, vaga frociaggine… Ma poi stop.
Professor Ermanno. Nel libro è una specie di secondo padre, per Giorgio, uno strano padre: gentile, ironico, sornione, ambigui anche lui come tutti gli altri Finzi-Contini, e amato da Giorgio con lo stesso trasporto sentimentale che tutta la famiglia, e la casa dei pinnacoli, e il magico giardino gli ispirano. Nel film, al contrario, il professor Ermanno non è che un vecchio, distinto signore. Tutto qui. L’attore che lo impersona appare d’una rigidezza e d’una freddezza inaudibile.
Malnate. La sceneggiatura Bassani-Bonicelli non dico che restituisse in pieno la ricchezza di sfumature che caratterizza nel romanzo questo personaggio, polo d’attrazione tanto per Micòl quanto per Alberto, e quindi tramite forse consapevole del sotterraneo rapporto incestuoso che lega l’uno all’altro i due fratelli. Ma qualche sforzo, in questo senso, essa però lo faceva! Nel film invece, Malnate come personaggio non esiste. E’un bel ragazzo, senza dubbio, dal fisico molto virile. Ma l’attore che lo impersona sembra in definitiva assai più adatto a esibirsi in parti di cowboy o di marinaio che non in quella di un giovane antifascista milanese degli anni Trenta, grande e grosso, sì, ma in fondo debole, nostalgico com’è della mamma, e ansioso di tornarsene nella sua Milano, a casa dai genitori. Le battute politiche che ancora pronuncia (le rare salvatesi dalla revisione-Pirro e dai successivi, considerevoli tagli e rimaneggiamenti praticati sul corpo della sceneggiatura durante la lavorazione del film, magari in fase di montaggio), lui le butta là con indifferenza da scolaretto. Si vede benissimo che le ha imparate a memoria, e che intanto, la sua testolina corre altrove.
Giorgio. Come era dato prevedere già leggendo la revisione-Pirro, è forse questo, nel film, il personaggio più sacrificato. Non dico che l’attore Capolicchio non faccia il suo dovere. Ma il film, incerto sempre se rappresentare la storia d’amore tra lui e Micòl, o se dare un quadro documentario dell’Italia mussoliniana alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, o se descrivere le persecuzioni antisemitiche attuate dal fascismo, ne fa un personaggio sbiadito, minore, di nessun rilievo morale. Nel romanzo, Giorgio è soltanto in apparenza un ragazzo come tutti gli altri. Il suo aspetto è di ventenne, ma il suo cervello e il suo cuore sono quelli di un adulto: il cervello e il cuore dello scrittore che, a quasi cinquant’anni, ricorda e giudica se stesso da giovane.
L’espediente dei flashes ritornanti, suggerito dalla sceneggiatura Bassani-Bonicelli, doveva servire soprattutto a questo: a restituire al personaggio di Giorgio qualcosa dell’importanza determinante che ha nel libro, a fare di lui, come nel libro, il più autentico antagonista di Micòl.
Nel romanzo, Micòl simboleggia la Vita, e per questo muore, sceglie di morire. Giorgio, l’Arte: e per questo vive, sceglie di sopravvivere, e quindi, di scrivere.
Padre di Giorgio, Romolo Valli è stato costretto a farne una specie di macchietta, e l’ha fatta benissimo, da par suo. Ma che rapporto c’è fra il personaggio del film (un quarantacinquenne bene in carne e bene in sangue, fra l’altro), e la straziata, lacerata immagine del padre di Giorgio, quale essa appare nelle ultime pagine del romanzo? La scena finale del film, che lo vede scambiare, con Micòl, l’abbraccio che al figlio Giorgio, ormai al sicuro, non era mai venuto buono, strapperà probabilmente una lacrima a chi ha la lacrima facile. Ma a me, e a chi ha il cervello, non potrà non svelarsi per quello che è: ficelle, puro espediente di comodo.
Ed infine la colonna sonora. Siamo a Ferrara, che diamine, nel cuore dell’Emilia, non siamo mica in un paese immaginario! Ebbene, l’inserviente della biblioteca pubblica si esprime in un dialetto genericamente settentrionale quale possono immaginarselo soltanto i doppiatori romani lasciati a se stessi, senza guida: un dialetto costruito in provetta che ben poco ha a che fare col ferrarese. E altrettanto si dica dei ragazzi che frequentano casa Finzi-Contini, il tennis. «Che fai?», «Che dici?». Al di sopra della linea Gotica, la gente che parla preferirebbe morire piuttosto che usare il pronome relativo nella forma neutra!
Semplice, commovente in superficie, popolare, abbia ormai il film di Vittorio De Sica la fortuna che si merita: gliela auguro volentieri.
Quanto a me, io mi dichiaro più che soddisfatto d’essere riuscito, non importa se in extremis, a far valere il mio buon diritto a non dividerne sia pure a fianco la paternità. Ma come! Fiducioso che il film sarebbe stato girato seguendo la sceneggiatura Bassani-Bonicelli, io avevo permesso (naturalmente in via amichevole, senza reclamare nessuna contropartita di danaro) che la casa di Giorgio, a Ferrara, fosse quella stessa casa di via Cisterna del Follo n.1 che è stata di mio nonno, di mio padre, e adesso è mia: una casa riconoscibilissima che, in città, tutti sanno a chi appartiene. Ora, servirsi di casa mia, a Ferrara, per meglio accollare, a me, una vicenda che non mi riguardava; pretendere che io apparissi capace di aver giocato con la vita e con la morte della persona che più ho amato al mondo, cioè mio padre: ecco due soprusi abbastanza atroci che si era tentato di infliggermi. Se li avessi subiti senza protestare, non sarei stato uno scrittore, e neanche un uomo.
http://www.nonsolocinema.com/Il-giardino-tradito_13033.html

Articolo di Bassani in cui spiega, con la consueta prosa diretta, arguta e piacevole, il perché della sua opposizione al film. Difficile trovarlo. Da leggere

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Il br francese, uscito ancora nel 2021,ha un nuovo master scansione 4k. E i subs francesi sono opzionali…

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