Anche a me è piaciuto molto, l’avevo visto in sala e presto prenderò il bluray.
Lo stregonesco miscuglio di Giambattista Basile si trasforma, nelle mani di Garrone, in qualcosa di rigoroso, controllato, ma sorprendentemente unico. Il merito principale è quello di attingere alla nostra tradizione più universale (l’opera di Basile è italiana, ma capace di influenzare la letteratura mondiale) sapendone cogliere l’essenza meravigliosa e reinterpretandola secondo il proprio stile. Mi spiace che in Italia il successo sia stato limitato, perché è un film che sa trasmettere il senso del magico e dell’alto come, ad esempio, il pachidermico Leopardi di Martone non è riuscito a fare.
[SPOILER] Già dalla prima scena, con l’immersione nelle strade del castello e nella realtà degli artisti circensi, si percepisce l’assoluta padronanza con la quale Garrone inscena un mondo.
Il regista rischia, sa creare il mistero anche privando lo spettatore di scene potenzialmente coinvolgenti - l’ormai celebre uccisione del drago, splendidamente velata e solo intuita -, suggerisce invece di mostrare, riuscendo così a protrarre la forza del film anche dopo il termine della sua proiezione.
Le tre storie, magistralmente scandite dalle continue e insistite vedute dei tre castelli, tre luoghi evocativi costruiti valorizzando location italiane che non scadono mai nel cartolinesco, si incastrano in maniera fluida, si fondono l’una con l’altra senza il peso della struttura episodica. Fino ad arrivare ad un finale tra i più belli e intensi del cinema italiano degl ultimi anni. Una chiusura che nasce dal sangue versato, ma impregnata di un’inattesa speranza, dove il passato ormai preda delle sue ossessioni cede il passo ai figli che hanno conquistato con la sofferenza e con la volontà il proprio posto.
La storia della principessa Violet è quella capace di sovrastare gli altri segmenti: parte in sordina, ma poi diventa il fulcro del film, facendo un po’ dimenticare i gemelli Elias e Jonah (forse l’episodio più scontato) e lasciando in secondo piano quello della vecchia Dora, che mi sembra il segmento meno ispirato, più facilmente leggibile e un po’ derivativo - al punto da sembrare una rilettura fantastica delle ossessioni di fama e ricchezza del protagonista di “Reality”.
Forse a Garrone si può rimprovare di aver saputo trovare uno stile visivo, ma non uno dialogico. L’arrembante lingua napoletana popolare e esplosiva di Basile, qui affonda in dialoghi sempre giusti, corretti, ma completamente anonimi. Non atemporali, ma diligentemente contemporanei.
Sarebbe stato un suicidio commerciale essere fedeli alla lingua di Basile, ma sarebbe stato comunque interessante tentare una riscrittura meno banale.
[/SPOILER]
Al netto di questa debolezza e di alcune parti narrativamente poco ispirate (limite, forse, di sceneggiatori italiani non abituati a cimentarsi col fantastico?), Garrone stupisce e si dimostra, potenzialmente, il più internazionale dei nostri registi.