Totò era un degno rappresentante della grande comicità all’italiana basata sul lazzo linguistico e sulla mimica corporea. Non si metteva al servizio di una situazione comica, ma faceva nascere continuamente nuove situazioni comiche. Apparteneva al grande ramo del teatro napoletano, anche se non si puo dire che fosse un pulcinella perché gli mancava la frustrazione del Pulcinella: era invece un vincitore e un prepotente, qualcosa di mezzo tra Pulcinella, sciosciammocca e il “Miles gloriosus”. Era un comico italiano, un comico friace appartenente alla antica tradizione latina. Creatore estemporaneo, andava a braccio, inventava. Come compagno era delizioso. Era un uomo pieno di umanità, perché veniva dal varietà e non dall’accademia, aveva conosciuto la fame dell’attore, si era formato a contatto del pubblico, aveva subìto le malversazioni della sfortuna e della fortuna. La sua stessa aspirazione alla nobiltà mi è sempre parsa legittima; nasceva forse dal gusto comico che sapeva mettere nella vita di ogni giorno. Se Totò fosse vissuto in un’altra nazione forse avrebbe fatto cose più importanti. La riscoperta che se ne è fatta dopo la morte è stata troppo tardiva ed esclamativa. Sono stato suo grande ammiratore sin dai tempi del teatro, dove l’ho visto spesso, e dove ha dato probabilmente le cose migliori di sé. Quando nel '50 ho fatto due film con lui, Le sei mogli di Barbablu e Totò Tarzan, avevo appena cominciato a fare teatro e ho accettato volentieri queste due occasioni di lavorare con Bragaglia e con Mattoli. Non eravamo giovani dispregiatori, credevamo ancora nella tradizione, capivamo i mestieri e le arti degli altri, ci consideravamo degli apprendisti. Per me Totò è stato - non dico un maestro, me l’impediva la mia presunzione personale - ma un grande fenomeno da osservare.