sempre sulla vicenda…
CORRIERE ESTATE. PASSIONI D’ AMORE
Luisa Ferida e Osvaldo Valenti Dai telefoni bianchi al sangue di Salò
Una delle coppie più famose del cinema italiano negli anni del fascismo
http://archiviostorico.corriere.it/2001/luglio/31/Luisa_Ferida_Osvaldo_Valenti_Dai_co_0_0107311334.shtml
Luisa Ferida e Osvaldo Valenti Dai telefoni bianchi al sangue di Salò di SILVIO BERTOLDI Il partigiano con il fazzoletto rosso intorno al collo disse che li avrebbero portati a San Vittore. Scesero in strada, aveva appena smesso di piovere. Un camion si accostò a retromarcia al portone, fu abbassata una scaletta, il cassone era coperto. Salirono in cinque: un uomo accusato di essere una spia, due donne sconosciute, gli altri erano Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. C’ erano quattro partigiani a sorvegliarli. Li fecero scendere in via Poliziano davanti al numero 15. La notte era fredda e umida, era rimasta nell’ aria una lieve cortina di nebbia. Uno dei partigiani gridò: «Qui, qui». Quello era il posto dove i fascisti avevano assassinato suo fratello. Valenti e la Ferida furono spinti dai mitra e accostati al muro. Le i gli si gettò tra le braccia gridando: «Non voglio morire, non voglio morire». Finalmente, dopo tanti equivoci, aveva capito. Lui le sussurrò: «Nella vita e nella morte insieme…». Stringeva nella mano destra la scarpina di lana azzurra che avrebbe dovuto essere di suo figlio Kim se non fosse morto cinque giorni dopo essere venuto alla luce. Non se ne separava mai e la tenne con sé nel momento supremo. Si accesero i fari del camion per illuminare la scena, partì la raffica. Caddero riversi nel sangue, erano già pronti i cartelli con la scritta in matita rossa: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti»; «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Luisa Ferida». Li posarono sui due cadaveri, finché non arrivò un’ ambulanza chiamata da un prete accorso agli spari, e li portò via. Erano le 23.35 del 30 aprile 1945. Da una casa venivano le note d’ una canzone allora famosa, «Illusione». Dicevano i versi: «Illusione, dolce chimera sei tu…». Sembrava un macabro contrasto, fino all’ ultimo istante i due attori si erano illusi di vivere, di salvarsi. Questa fu la fine della coppia forse più famosa del cinema italiano negli anni del fascismo, lui l’ interprete dei ruoli del bello e crudele, dell’ affascinante perverso, fatale e spietato, lei la diva sensuale e torbida, la bellissima dai grandi fianchi, dai grandi seni, dagli occhi di fuoco, dal temperamento passionale, la più popolare di allora, più delle rivali, la Calamai, la Duranti, la Valli. Il cinema, dove si erano incontrati, li aveva uniti anche nella vita e mai si sarebbe pensato a una unione tanto profonda e totale, tra due persone così dissimili in tutto, così all’ opposto per carattere, nascita, cultura, educazione, istinti. Vissero invece come trascinati da una predestinazione funesta, da un destino che li avrebbe travolti insieme, accusati di mille colpi, indicati di reati turpi e immaginari, vittime di quel clima violento e sanguinario che contraddistinse gli ultimi giorni di Salò, quando amori disperati si consumarono nella fatale consapevolezza della fine incombente, della tragedia che li avrebbe spazzati via. Quando nel settembre del 1943 lasciarono Roma per Venezia, dove gli esuli di Cinecittà tentavano di riportare in vita il defunto cinema italiano nella Repubblica Sociale, Valenti aveva 37 anni e la Ferida 29. Si sono cercate mille motivazioni per dare un senso a quella scelta: com’ era possibile che due attori tra i più famosi del momento, protagonisti mondani e di vetrina in una Roma ormai in attesa soltanto dell’ arrivo degli Alleati e scettica su qualsiasi rinascita fascista, possano avere deciso l’ avventura al Nord senza rendersi conto di quanto fosse foriera di catastrofi annunciate? Tutti, nel loro mondo, lo avevano capito: solo loro fecero quel passo. Che cosa li spinse? Non l’ ideologia, Valenti non era nemmeno iscritto al partito, lei si occupava di lui e della sua bellezza. Non obblighi, lusinghiere prospettive, nemmeno una condizione di instabilità psicologica, sebbene quella fosse spesso la norma della loro vita. La verità è più semplice: non avevano più una lira, solo debiti e crediti difficilmente esigibili, nessuna prospettiva di lavoro in un cinema entrato in coma il 25 luglio. Qualcuno li convinse che a Nord sarebbe ricominciato tutto, che avrebbero fatto altri film, guadagnato altri milioni. Bastava. Il problema di finire in una parte dell’ Italia occupata dai tedeschi, in una macabra resurrezione del peggiore e più corrotto fantasma fascista, era al di là dei loro interessi. Anche della loro comprensione. Avevano vissuto entrambi una stagione trionfale. Erano stati protagonisti di alcuni dei film più celebrati e osannati del cinema degli anni Quaranta, i capolavori di Blasetti, La corona ferrea, Ettore Fieramosca, La cena delle beffe, decine di pellicole, di premi, una popolarità paragonabile solo a quella odierna di una Loren o di un Gassman. Avevano guadagnato, speso, goduto, sperperato tra amicizie potenti (i Ciano, Balbo, i figli di Mussolini), grandi alberghi, grandi serate e nottate rese orgiastiche dalla cocaina e dall’ alcol. Valenti era tossicomane e aveva trascinato anche lei nel vizio: molti ricordano al termine di quelle notti i suoi occhi allucinati, il suo sguardo perduto in chissà quali paradisi, le sue esplosioni di ingiustificati furori. Al di là di questo, un amore che resisteva a qualunque insidia. L’ amore di due esseri diversi in tutto. Valenti era un ibrido internazionale, il figlio d’ un barone siciliano nato a Costantinopoli da una madre greca, nipote dell’ archimandrita di Cipro, cresciuto avventurosamente tra la Turchia, l’ Italia, la Francia e la Germania, conversatore di straordinarie invenzioni in sei lingue (tra cui l’ arabo), esibizionista per vocazione e spaccone per scelta. Alle spalle una carriera di attore cominciata per caso a Berlino, per noia e per necessità proseguita a Parigi, divenuta trionfale a Roma nella nascente Cinecittà e nelle aule del centro sperimentale di cinematografia. Accanto a un simile personaggio, una ragazza bolognese di forme opulente e di focoso temperamento, grezza, ignorante ma esplosiva, fuggita di casa a 17 anni per fare l’ attrice, fortunosamente approdata a Roma nel mondo del cinema, grazie a uno dei tanti potenti di allora, un produttore di cui era divenuta l’ amante e che morirà di cancro quando lei aveva già vinto la sua battaglia. Conobbe Valenti a cui la scaricò Blasetti, refrattario alle avances di quella bellezza popolana. Fu un colpo di fulmine. Li dividerà solamente la morte, affrontata da lei con lo spirito che fu di Claretta Petacci, consapevole del destino che l’ attendeva ma decisa a seguire il suo uomo fino in fondo. Al Nord Valenti fece tutte le sciocchezze e i passi falsi a cui lo portavano la sua vanità e la sua sventatezza, oltre al bisogno di denaro. Conobbe Borghese e ne fu affascinato, entrò nella Decima Mas, accettò di occuparsi dell’ approvvigionamento clandestino di carburante, fu coinvolto in un giro equivoco di contrabbando di valuta estera, di esportazioni truffaldine di merci in Svizzera. Peggio, strinse una innaturale amicizia con il peggior esponente della criminalità di Salò, il dottor Koch, il torturatore di «Villa Triste», il fanatico feroce che vantava una intoccabilità garantita dai tedeschi. Valenti fu visto più volte a «Villa Triste» e chissà che cosa ve lo spingeva, forse un interiore sadismo oppure, all’ opposto, la pietà per le vittime di cui vedeva con i suoi occhi le atroci sofferenze. Qualche volta aveva portato anche la Ferida e così era nata la leggenda di lei che danzava nuda davanti ai torturati sanguinanti, per eccitarli e spingerli a chissà quali confessioni. Non era vero nulla, così come non era vero che Valenti avesse preso parte agli interrogatori e alle torture. Eppure pagò proprio questo con la morte, vittima non della sua crudeltà ma della sua mitomania. Pur nella nebbia delle sue alienanti insicurezze, il 10 aprile Valenti capisce che la situazione precipita e spera di salvarsi consegnandosi ai partigiani. Incontra Nino Pulejo delle Brigate Matteotti e lo sommerge di chiacchiere, offrendo addirittura la consegna di reparti della Decima in cambio dell’ incolumità sua e della Ferida. Non viene preso sul serio, lo cercano i tedeschi, sfugge a un loro agguato, si rifugia proprio in casa di quel Pulejo appena conosciuto, il quale se ne libera affidando lui e la sua compagna, che nel frattempo lo ha raggiunto, al comandante della Divisione Pasubio Marozin, trasferitosi a Milano per sfuggire a una condanna a morte del CLN del Veneto per crimini, furti, abusi e atrocità di ogni sorta. Il 21 aprile questo Marozin incontra Pertini che gli dice: «A proposito, tu hai prigioniero anche Valenti?». Marozin gli risponde: «Sì, ho preso anche la Ferida. Li ho messi un poco fuori Milano, in un posto sicuro». E Pertini: «Allora fucilali; e non perdere tempo. Questo è un ordine tassativo del CLN. Vedi di ricordartene». Ordine tassativo del CLN: chi lo avrà dato e quando. Di quell’ ordine, che sarebbe stato determinato dall’ accusa ai due d’ avere partecipato alle torture della banda Koch e di avere collaborato con i tedeschi, dovrebbe esserci stato un documento scritto. Nessuno lo ha veduto. Di scritto c’ è soltanto un foglio in data 25 aprile dove si legge che «…il CLN su proposta dei socialisti vota all’ unanimità il deferimento al tribunale militare di Valenti Osvaldo e Ferida Luisa per essere giudicati per direttissima quali criminali di guerra per avere inflitto torture e sevizie a detenuti politici». Dunque, un deferimento, non una sentenza. Ma in quel mese di aprile, e peggio nei successivi, c’ era la fucilazione facile e bastò l’ intervento di Pertini a decidere la sorte dei due attori. Marozin voleva scambiarli con cinque dei suoi presi prigionieri dai tedeschi. Fallito il tentativo, non ebbe scrupoli a liberarsi dei due ingombranti personaggi e ad eseguire l’ ordine del partito (o solo dei socialisti? o solo di Pertini? o di quale membro del CLN?). Li aveva fatti trasferire, per «sicurezza», in una cascina nei pressi di Baggio, da certi suoi amici. Là Valenti trascorse le sue ultime giornate, nell’ illusione di avere trovato in Marozin un amico che gli prometteva di salvarlo. Lei era più scettica, aveva cominciato a capire. Il suo istinto le faceva vedere con più chiarezza una situazione che lo stralunato compagno non afferrava. Marozin, più che un partigiano, era un bandito e prima di liberarsi dei due prigionieri aveva provveduto a depredarli di tutto quanto possedevano, dodici bauli pieni di argenterie, pellicce e denaro. Un bottino da aggiungere al frutto della rapina milionaria compita alla Zecca nello stabilimento Alfieri e Lacroix. Che Valenti e la Ferida fossero innocenti e la loro fucilazione fosse piuttosto un assassinio, come fu poi provato dalla Corte d’ appello di Milano, non era affar suo. Non sarebbero stati due cadaveri in più o in meno a turbarlo. Proprio in quei giorni, senza sentir ragioni, aveva fatto fucilare il giovane conte Barbiano di Belgioioso e cinque suoi compagni, tutti partigiani, finiti in un suo posto di blocco e presi per fascisti. Valenti e la Ferida vissero in quella cascina fino alla sera del 28 aprile quando li trasferirono al comando di Marozin, in un appartamento di via Guerrazzi. Passavano il tempo tra speranza e sconforto, nell’ incertezza d’ una sorte che si faceva sempre più allarmante. Lei, incinta, aveva crisi di pianto e lui la confortava sentendosi rispondere che non sarebbe stato mai lasciato solo. Una notte, in quella cascina, Valenti fu processato davanti a un equivoco tribunale, composto da partigiani che erano stati poliziotti della RSI e da un misterioso individuo appartenente ai servizi segreti. Là fu confermata la sua condanna a morte, senza che nessuno gliene desse notizia. Là, con il passare delle ore, il dubbio di essere caduti in un tranello, di essere stati traditi da quel Marozin che li aveva lusingati con la prospettiva di salvarli, diventò certezza. In via Guerrazzi trascorsero le ultime ore, tra gente rastrellata per strada, ragazze accusate di essere andate con i fascisti, personaggi della spettrale fine d’ un regime. Stavano appoggiati al muro d’ una squallida cucina e aspettavano il loro momento. Arrivò con il camion che li avrebbe scaricati davanti ai mitra di via Poliziano. Al rumore degli spari, da una di quelle case scese in strada un prete, don Adolfo Terzoli, in tempo per impartire l’ estrema unzione a due cadaveri. Li aveva riconosciuti al lume della sua torcia, e del resto bastavano i cartelli posati sui loro corpi. Fu lui a chiamare l’ ambulanza e a salire a bordo, per accompagnare le salme all’ obitorio. Entrò e si sentì svenire. Sui tavoli di marmo c’ erano centoquaranta cadaveri raccolti nelle strade di Milano in quel solo giorno. Il 30 aprile 1945.
Bertoldi Silvio