Luisa Ferida e Osvaldo Valenti

Ovvero la coppia maledetta del cinema italiano di regime.
Foto e immagini tratte da:

Paquale Chessa, Guerra civile (1943-1945-1948), edito da Mondadori, pp.138-139.


Valenti e la Ferida - Valenti con la divisa della X Mas

Pertini con i capi partigiani Bonfantini e Marozin

Comizio della Liberazione a Milano. Pertini è al centro con Corrado Bonfantini, comandante della Brigata Matteotti, a sinistra e Marozin a destra. Sarebbe stato proprio Sandro Pertini a sollecitare al comandante della Pasubio, “Vero” Marozin, l’esecuzione di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Così il 30 aprile in via Poliziano per i due attori si spensero i riflettori sulla scena della vita (sotto, Obitorio di Milano).

I loro corpi senza vita…

Una vita estrema in cui finzione e realtà avevano lo stesso valore effimero.
Lui inquieto e temerario, lei impulsiva, lui torbido lei semplice. Si erano conosciuti attraverso Alessandro Blasetti, regista di spicco ai tempi del fascismo (vedere topic La corona di ferro). Insieme girarono molti film e dominarono lo star system di Cinecittà. Insieme si lasciarono travolgere da una vita brillante che non badava a spese soprattutto perché aveva il suo motore nella cocaina. Blasetti ricorderà così Valenti: “Non aveva eguali come attore, e anche come uomo non aveva modelli che se stesso”. Per il regime Valenti era piuttosto un eccentrico…Potrebbe essere vera perciò la leggenda che racconta avesse brindato offrendo da bere a tutta Cinecittà alla caduta del Duce il 25 luglio 1943. Ma quando Cinecittà fu trasferita a Venezia, Valenti e Ferida decisero di scegliere il destino di Salò. All’inizio non fu facile; poi con il milione saldato dalla Cines, la vita brillante riprese ai ritmi consueti e sempre al di sopra delle loro possibilità. Anche politiche. A Jesolo Valenti conosce il principe Junio Valerio Borghese ed entra a far parte della X Mas, confondendo ancora una volta la scena con la vita (foto sopra, in divisa). A Milano, dove viveva nel lusso del Continental, dopo aver lasciato Venezia nel luglio 1944, incappa in un losco affare di ricettazione che lo porta in carcere. A liberarlo ci penserà Pietro Koch, uno dei più efferati protagonisti dell’epopea nera di Salò. Sarà l’uso smodato della cocaina a spingere Valenti e Ferida alla frequentazione di Villa Triste in via Paolo Uccello, dove la banda Koch perpetrava i suoi misfatti. Quando si capì che la partita di Salò era agli sgoccioli, Valenti con incosciente improntitudine, tentò di passare dall’altra parte. Ma, attratto come sempre dalle fosche e losche personalità, si rivolse a "Vero" Marozin, discusso comandante della Pasubio, che nel Veneto era stato persino condannato a morte dal Cln, uno dei più attivi nella resa dei conti selvaggia dopo la liberazione di Milano. Sottoposto a un processo sommario, Valenti negò tutto, compreso il consumo di cocaina. Ma nessuno gli credette. La fama brillante e sfrontata di Valenti e Ferida divenne il capo di imputazione principale, anche se non scritto. Quando capì che era davvero finita, per consolare la sua compagna, Valenti avrebbe sussurrato una frase che, se vera, sembra tratta di peso dai suoi copioni: “Nella vita e nella morte insieme”.

Che storia…ricordo di averla letta in una rivista qualche anno fa in piu’ puntate…

Storia molto triste. Sono stati scritti almeno due-tre libri sulla vicenda, eppure ancora ci si chiede se davvero la coppia prese parte agli interrogatori (cioè alle torture) oppure no.

Diciamo che è stato sufficiente farsi notare più volte a Villa Triste in Milano dove la Banda di Pietro Koch effettuva gli interrogatori: un luogo, bisogna dirlo, già all’epoca tristemente famoso e dove, in virtù di ciò che vi accadeva, le persone perbene stavano ben alla larga.

Ovviamente nell’ambito della vicenda è auspicabile leggere l’ottimo libro di Lenzi “Delitti a Cinecitta`”.

Il 5 giugno 1945 Pietro Koch, dopo un breve processo davanti all’Alta Corte di giustizia, venne fucilato a Roma, a Forte Bravetta. In cella aveva chiesto l’assistenza di un prete, che gli fu concessa. Calmo, impeccabilmente pettinato, prima di sedersi davanti al plotone formato da venti Guardie di Pubblica Sicurezza si preoccupò di assestare con la mano la piega dei pantaloni. La scarica di fucileria gli staccò la volta cranica, che volò nell’erba. Tutta la scena venne filmata: regista d’eccezione, Luchino Visconti.
http://www.storiain.net/arret/num41/artic4.htm

Fra i capi di imputazione anche la morte di Bruno Fanciullacci (loro prigioniero)

…ma siamo già o.t.

Sulla storia della coppia di cui sopra, devo recuperare Sanguepazzo girato nella primavera del 2007 a Torino (soprattutto per visionare una Bellucci da leccarsi i baffi)

Che però non sfiora nemmeno lontanamente le vicende presentate da Caltiki

Fa parte del film/documentario Giorni di gloria.

http://www.cinematografo.it/bancadati/consultazione/schedafilm.jsp?codice=5809&completa=si

Apro un thread in “Tutto il resto”:

http://www.gentedirispetto.com/forum/showthread.php?19291-Giorni-di-gloria-(1945)&highlight=ferida

Per una più esaustiva analisi del coinvolgimento Ferida/Valenti nella frequentazione di Villa Triste vi rimando alla lettura del libro di Massimiliano Griner - La “banda Koch”. Il reparto speciale di polizia 1943-44. ed. Bollati Boringhieri.

Emerge chiaramente che molte delle voci a riguardo furono frutto di isteria.

Lo stesso autore di un interessante saggio su Jacopetti:

http://www.gentedirispetto.com/forum/showthread.php?p=217462#post217462

Aggiungo quest’articolo sulla tragica e sciagurata coppia:

Banda Koch / Valenti-Ferida, una follia fatta di sangue di Enrico Campofreda

Cinema e Memoria Marco Tullio Giordana ha presentato, fuori concorso a Cannes, il film Sanguepazzo, un opera che rievoca la vita, durante la Repubblica di Salò, della coppia di attori Valenti-Ferida, finiti giustiziati il 29 aprile 1945 dai partigiani della divisione Pasubio. Soprattutto, un’opera che rappresenta l’ulteriore contributo al revisionismo storico. Potrà ribadire Marco Tullio Giordana (l’ottimo regista delle pellicole civili I cento passi e Pasolini un delitto italiano) il ricordo di padre e nonno resistenti e dichiarare come ha fatto sulla Croisette a Cannes “Non vorrei incontrarli nell’al di là e dovermi sentire in colpa”.

Forse in colpa ci si sente già per aver dato il suo contributo, magari involontario, a quel revisionismo storico che impazza da un decennio sugli schermi grandi e piccini e sugli scaffali delle librerie. E’ di questi giorni l’uscita dell’ennesimo romanzo (I tre inverni della paura) di Giampaolo Pansa da anni impegnato nella subdola opera di mescolare fatti accaduti a voci, dicerie, supposizioni e fantasie con cui dà corpo ai suoi racconti. Tutti rivolti a rivoltare la storia, dove gl’infami sono i partigiani comunisti e le vittime inermi fascisti e collaboratori o innocenti incolpati ingiustamente e per questo assassinati. Giordana ha presentato e difeso, com’è logico che sia nella sua posizione d’autore, il film Sanguepazzo presentato fuori concorso a Cannes. Che rievoca la vita, la passione amorosa e la torbida esistenza durante la Repubblica di Salò della coppia di attori Valenti-Ferida, finiti giustiziati il 29 aprile 1945 dai partigiani della divisione Pasubio.

Giordana in un’intervista, per spiegare la scelta di narrare attraverso un film vita e morte dei due attori, ha fatto cenno alla celebre opera di Claudio Pavone che nel 1991, infrangendo un tabù della Liberazione, ha parlato di guerra civile fra italiani. L’attento regista dovrebbe sapere che una chiave di lettura del copioso lavoro è già esposta nel titolo, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Il tema, peraltro ampiamente discusso negli anni scorsi, non è tanto se dopo l’8 settembre italico ci sia o meno stata una guerra civile combattuta o latente (secondo Pavone ci fu, altri continuano a sostenere che senza la protezione della Wermacht la Rsi non sarebbe durata venti mesi ma venti giorni), bensì la scelta che si presentò agli italiani, compresa una generazione di ragazzi. Ci fu chi, pur se proveniva dal fronte russo, non si nascose e salì in montagna, e chi riparò sulle rive del Garda mettendosi al servizio dei Comandi germanici. Ma ci fu di più e peggio. Coloro che posero la propria miseria umana, il cinismo, la ferocia al soldo dei nazisti alla Kappler e Saeveke.

Uno di questi criminali si chiamava Pietro Koch, aveva istituito una propria polizia che collaborava coi comandi Gestapo. Ne abbiamo parlato recentemente su aprileonline ma a volte repetita iuvant. Raccoglieva con sé fanatici fascisti della prima e seconda ora, picchiatori, aguzzini, seviziatori, spie e ospiti che sequestravano italiani, li ‘lavoravano’ e li ‘visitavano’ in centri di tortura clandestini. Quelle “Ville tristi”, sparse anche in altre città del centro nord, per Koch a Roma furono la pensione Oltremare di via Principe Amedeo e la Jaccarino di via Romagna. A Milano fu Villa Fossati in via Paolo Uccello. In quei tre edifici passarono oltre seicento persone, cittadini e militanti politici, alcuni nomi noti - Albertelli, Benedicenti, Bernabei, Ferola, Giglio, Viotti, Sepe - finirono i loro giorni alle Ardeatine, dopo che Koch li consegnò a Kappler questi al direttore di Regina Coeli Carretta che poi, tramite il questore Caruso, li rimise in mano a Kappler e Priebke per il criminale eccidio del 24 marzo ‘44. Altri come Colorni, Pinci, Patentini, Rossi vennero assassinati altrove. Qualcuno più fortunato riuscì a sopravvivere: Salinari, Pintor, Roveda, Visconti.

Valenti e Ferida cui Giordana dedica il film, attori che per la scarsa filmografia realizzata durante la guerra si trovarono in scena anche dopo la propria adesione alla Repubblica di Salò, furono per un periodo frequentatori di Villa Fossati proprio quando Koch e i suoi uomini lì sequestravano cittadini. “Non esistono testimonianze della partecipazione di lui ai rastrellamenti di partigiani né di tutti e due alle torture di Villa Triste” dichiara Giordana nell’intervista. Non è proprio così. E comunque è opportuno precisare che Valenti aveva aderito volontario alla X Mas di Julio Valerio Borghese reparto dedito a operazioni antipartigiane, come nell’entroterra ligure dove operava Engel il massacratore del passo del Turchino. Vestire quella divisa valeva a condividerne scopi e funzioni, e se questo non può rappresentare un atto d’accusa per i crimini di cui i reparti si macchiarono non c’è neppure un’assoluzione morale. Lo stesso vale per la presenza della coppia a Villa Triste nella zona di San Siro che non era proprio un hotel del Lido di Venezia. Gli attori possono essere considerati vittime d’un’esecuzione sommaria da parte d’un gruppo patriota discusso come quello della Pasubio, comandato da tal Morosin per le cui delucidazioni rimandiamo al testo di Bocca, Storia dell’Italia partigiana. Ma la vita soprattutto di Valenti, vittima in primo luogo di fanatismo politico ben oltre ogni limite di tolleranza temporale, di arrivismo e di droghe, e della Ferida, vittima dell’attaccamento ai vizi di suo marito non meritano la glorificazione ricevuta da certa pubblicistica revisionista (cfr. Lualdi, Morire a Salò e Cazzadori, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida: gloria).

Purtroppo le testimonianze di vittime di Koch che riconobbero gli attori e lo dichiararono esistono. Dei documenti raccolti dalla pregevole e meticolosa ricostruzione storica di Massimiliano Griner, La banda Koch riportiamo un unico brano. Ne è autore Giuseppe Pagano che forse lo stilò nel carcere di San Vittore prima d’essere deportato nel campo di Mauthausen dal quale sarebbe uscito cadavere: “Non è facile tentare una descrizione sommaria dell’ambiente eccezionale che imperava nella villa di via Paolo Uccello, nel tempo in cui essa fu sede del . Questa villa è situata ai numeri 17-19, incastrata tranquillamente tra altre case… A vederla dal di fuori non viene certo da pensare che in questa casetta presuntuosa e tuttavia insignificante si sono svolte quelle scene grottesche e feroci che han data così triste celebrità alla banda Koch. Un passante superficiale poteva ammirare di giorno, nel giardino, eleganze e divi cinematografici, giovinotti azzimati e galanti, volti noti di attori: la Ferida e Valenti, in amabili conversari con strani ospiti eleganti e profumati. Ma gli ospiti erano tutti armati e sfoggiavano spesso armi vistose: il muro di cinta e le inferriate del giardino erano rinforzati da supplementi di filo spinato; le pareti esterne fornite di potenti riflettori elettrici; alle porte funzionavano sentinelle in borghese e tutta l’attività della villa misteriosa era sottoposta, di notte, a fremiti di febbrile agitazione: arrivo di automobili, da cui discendevano gruppi di uomini bendati; rumori di colluttazioni furiose; rimbombi di agitatissime discussioni; urli pazzeschi e improvvisi che si alzavano sinistri nella notte… In mezzo a questi due mondi, quello dei martiri e dei martirizzatori, si aggiravano strani tipi di sadici e isterici che comparivano spesso per assistere con gioia alle battiture, che sfoggiavano particolari interessi morbosi di venire a visitare le celle, che dimostravano strane attrattive sentimentali per avvicinare i detenuti ostentando una equivoca intenzione umanitaria. Eccellevano in questa opera ridicola e spesso assurda o addirittura repellente, il conte Guido Stampa e l’attore cinematografico Osvaldo Valenti”.

da “Aprileonline”, 21 maggio 2008

L’ultimo periodo di tale articolo conferma, in fondo, che La Ferida e Valenti erano sì frequentatori della villa, ma non dice nulla sul fatto che potessero essere al corrente di quanto accadeva lì dentro, di notte…
Non vi è nessuna certezza che i due sapessero e/o fossero conniventi o addirittura “macellai” essi stessi…Francamente, faccio fatica a immaginarmeli in tali panni.
Fiancheggiatori del regime si, conniventi con tali efferatezza non credo.

Scusa Max ma il periodo conclusivo dell’articolo insinua esattamente il dubbio contrario, e cioè che fossero spettatori sadicamente divertiti.

“…si aggiravano strani tipi di sadici e isterici che comparivano spesso per assistere con gioia alle battiture, che sfoggiavano particolari interessi morbosi di venire a visitare le celle, che dimostravano strane attrattive sentimentali per avvicinare i detenuti ostentando una equivoca intenzione umanitaria. Eccellevano in questa opera ridicola e spesso assurda o addirittura repellente, il conte Guido Stampa e l’attore cinematografico Osvaldo Valenti

P.S. Se si tratta di un thread non cinematografico sarebbe però meglio spostarlo in altra stanza

si ma il romanzo (ottimo peraltro, acquistato dal sottoscritto all’AAMA lo scorso anno) li “utilizza” solo come protagonisti, in una storia di fantasia.

A tal proposito visto ieri Sanguepazzo (2008), di Marco Tullio Giordana, vivamente consigliato…

sempre sulla vicenda…

CORRIERE ESTATE. PASSIONI D’ AMORE
Luisa Ferida e Osvaldo Valenti Dai telefoni bianchi al sangue di Salò
Una delle coppie più famose del cinema italiano negli anni del fascismo

http://archiviostorico.corriere.it/2001/luglio/31/Luisa_Ferida_Osvaldo_Valenti_Dai_co_0_0107311334.shtml

Luisa Ferida e Osvaldo Valenti Dai telefoni bianchi al sangue di Salò di SILVIO BERTOLDI Il partigiano con il fazzoletto rosso intorno al collo disse che li avrebbero portati a San Vittore. Scesero in strada, aveva appena smesso di piovere. Un camion si accostò a retromarcia al portone, fu abbassata una scaletta, il cassone era coperto. Salirono in cinque: un uomo accusato di essere una spia, due donne sconosciute, gli altri erano Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. C’ erano quattro partigiani a sorvegliarli. Li fecero scendere in via Poliziano davanti al numero 15. La notte era fredda e umida, era rimasta nell’ aria una lieve cortina di nebbia. Uno dei partigiani gridò: «Qui, qui». Quello era il posto dove i fascisti avevano assassinato suo fratello. Valenti e la Ferida furono spinti dai mitra e accostati al muro. Le i gli si gettò tra le braccia gridando: «Non voglio morire, non voglio morire». Finalmente, dopo tanti equivoci, aveva capito. Lui le sussurrò: «Nella vita e nella morte insieme…». Stringeva nella mano destra la scarpina di lana azzurra che avrebbe dovuto essere di suo figlio Kim se non fosse morto cinque giorni dopo essere venuto alla luce. Non se ne separava mai e la tenne con sé nel momento supremo. Si accesero i fari del camion per illuminare la scena, partì la raffica. Caddero riversi nel sangue, erano già pronti i cartelli con la scritta in matita rossa: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti»; «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Luisa Ferida». Li posarono sui due cadaveri, finché non arrivò un’ ambulanza chiamata da un prete accorso agli spari, e li portò via. Erano le 23.35 del 30 aprile 1945. Da una casa venivano le note d’ una canzone allora famosa, «Illusione». Dicevano i versi: «Illusione, dolce chimera sei tu…». Sembrava un macabro contrasto, fino all’ ultimo istante i due attori si erano illusi di vivere, di salvarsi. Questa fu la fine della coppia forse più famosa del cinema italiano negli anni del fascismo, lui l’ interprete dei ruoli del bello e crudele, dell’ affascinante perverso, fatale e spietato, lei la diva sensuale e torbida, la bellissima dai grandi fianchi, dai grandi seni, dagli occhi di fuoco, dal temperamento passionale, la più popolare di allora, più delle rivali, la Calamai, la Duranti, la Valli. Il cinema, dove si erano incontrati, li aveva uniti anche nella vita e mai si sarebbe pensato a una unione tanto profonda e totale, tra due persone così dissimili in tutto, così all’ opposto per carattere, nascita, cultura, educazione, istinti. Vissero invece come trascinati da una predestinazione funesta, da un destino che li avrebbe travolti insieme, accusati di mille colpi, indicati di reati turpi e immaginari, vittime di quel clima violento e sanguinario che contraddistinse gli ultimi giorni di Salò, quando amori disperati si consumarono nella fatale consapevolezza della fine incombente, della tragedia che li avrebbe spazzati via. Quando nel settembre del 1943 lasciarono Roma per Venezia, dove gli esuli di Cinecittà tentavano di riportare in vita il defunto cinema italiano nella Repubblica Sociale, Valenti aveva 37 anni e la Ferida 29. Si sono cercate mille motivazioni per dare un senso a quella scelta: com’ era possibile che due attori tra i più famosi del momento, protagonisti mondani e di vetrina in una Roma ormai in attesa soltanto dell’ arrivo degli Alleati e scettica su qualsiasi rinascita fascista, possano avere deciso l’ avventura al Nord senza rendersi conto di quanto fosse foriera di catastrofi annunciate? Tutti, nel loro mondo, lo avevano capito: solo loro fecero quel passo. Che cosa li spinse? Non l’ ideologia, Valenti non era nemmeno iscritto al partito, lei si occupava di lui e della sua bellezza. Non obblighi, lusinghiere prospettive, nemmeno una condizione di instabilità psicologica, sebbene quella fosse spesso la norma della loro vita. La verità è più semplice: non avevano più una lira, solo debiti e crediti difficilmente esigibili, nessuna prospettiva di lavoro in un cinema entrato in coma il 25 luglio. Qualcuno li convinse che a Nord sarebbe ricominciato tutto, che avrebbero fatto altri film, guadagnato altri milioni. Bastava. Il problema di finire in una parte dell’ Italia occupata dai tedeschi, in una macabra resurrezione del peggiore e più corrotto fantasma fascista, era al di là dei loro interessi. Anche della loro comprensione. Avevano vissuto entrambi una stagione trionfale. Erano stati protagonisti di alcuni dei film più celebrati e osannati del cinema degli anni Quaranta, i capolavori di Blasetti, La corona ferrea, Ettore Fieramosca, La cena delle beffe, decine di pellicole, di premi, una popolarità paragonabile solo a quella odierna di una Loren o di un Gassman. Avevano guadagnato, speso, goduto, sperperato tra amicizie potenti (i Ciano, Balbo, i figli di Mussolini), grandi alberghi, grandi serate e nottate rese orgiastiche dalla cocaina e dall’ alcol. Valenti era tossicomane e aveva trascinato anche lei nel vizio: molti ricordano al termine di quelle notti i suoi occhi allucinati, il suo sguardo perduto in chissà quali paradisi, le sue esplosioni di ingiustificati furori. Al di là di questo, un amore che resisteva a qualunque insidia. L’ amore di due esseri diversi in tutto. Valenti era un ibrido internazionale, il figlio d’ un barone siciliano nato a Costantinopoli da una madre greca, nipote dell’ archimandrita di Cipro, cresciuto avventurosamente tra la Turchia, l’ Italia, la Francia e la Germania, conversatore di straordinarie invenzioni in sei lingue (tra cui l’ arabo), esibizionista per vocazione e spaccone per scelta. Alle spalle una carriera di attore cominciata per caso a Berlino, per noia e per necessità proseguita a Parigi, divenuta trionfale a Roma nella nascente Cinecittà e nelle aule del centro sperimentale di cinematografia. Accanto a un simile personaggio, una ragazza bolognese di forme opulente e di focoso temperamento, grezza, ignorante ma esplosiva, fuggita di casa a 17 anni per fare l’ attrice, fortunosamente approdata a Roma nel mondo del cinema, grazie a uno dei tanti potenti di allora, un produttore di cui era divenuta l’ amante e che morirà di cancro quando lei aveva già vinto la sua battaglia. Conobbe Valenti a cui la scaricò Blasetti, refrattario alle avances di quella bellezza popolana. Fu un colpo di fulmine. Li dividerà solamente la morte, affrontata da lei con lo spirito che fu di Claretta Petacci, consapevole del destino che l’ attendeva ma decisa a seguire il suo uomo fino in fondo. Al Nord Valenti fece tutte le sciocchezze e i passi falsi a cui lo portavano la sua vanità e la sua sventatezza, oltre al bisogno di denaro. Conobbe Borghese e ne fu affascinato, entrò nella Decima Mas, accettò di occuparsi dell’ approvvigionamento clandestino di carburante, fu coinvolto in un giro equivoco di contrabbando di valuta estera, di esportazioni truffaldine di merci in Svizzera. Peggio, strinse una innaturale amicizia con il peggior esponente della criminalità di Salò, il dottor Koch, il torturatore di «Villa Triste», il fanatico feroce che vantava una intoccabilità garantita dai tedeschi. Valenti fu visto più volte a «Villa Triste» e chissà che cosa ve lo spingeva, forse un interiore sadismo oppure, all’ opposto, la pietà per le vittime di cui vedeva con i suoi occhi le atroci sofferenze. Qualche volta aveva portato anche la Ferida e così era nata la leggenda di lei che danzava nuda davanti ai torturati sanguinanti, per eccitarli e spingerli a chissà quali confessioni. Non era vero nulla, così come non era vero che Valenti avesse preso parte agli interrogatori e alle torture. Eppure pagò proprio questo con la morte, vittima non della sua crudeltà ma della sua mitomania. Pur nella nebbia delle sue alienanti insicurezze, il 10 aprile Valenti capisce che la situazione precipita e spera di salvarsi consegnandosi ai partigiani. Incontra Nino Pulejo delle Brigate Matteotti e lo sommerge di chiacchiere, offrendo addirittura la consegna di reparti della Decima in cambio dell’ incolumità sua e della Ferida. Non viene preso sul serio, lo cercano i tedeschi, sfugge a un loro agguato, si rifugia proprio in casa di quel Pulejo appena conosciuto, il quale se ne libera affidando lui e la sua compagna, che nel frattempo lo ha raggiunto, al comandante della Divisione Pasubio Marozin, trasferitosi a Milano per sfuggire a una condanna a morte del CLN del Veneto per crimini, furti, abusi e atrocità di ogni sorta. Il 21 aprile questo Marozin incontra Pertini che gli dice: «A proposito, tu hai prigioniero anche Valenti?». Marozin gli risponde: «Sì, ho preso anche la Ferida. Li ho messi un poco fuori Milano, in un posto sicuro». E Pertini: «Allora fucilali; e non perdere tempo. Questo è un ordine tassativo del CLN. Vedi di ricordartene». Ordine tassativo del CLN: chi lo avrà dato e quando. Di quell’ ordine, che sarebbe stato determinato dall’ accusa ai due d’ avere partecipato alle torture della banda Koch e di avere collaborato con i tedeschi, dovrebbe esserci stato un documento scritto. Nessuno lo ha veduto. Di scritto c’ è soltanto un foglio in data 25 aprile dove si legge che «…il CLN su proposta dei socialisti vota all’ unanimità il deferimento al tribunale militare di Valenti Osvaldo e Ferida Luisa per essere giudicati per direttissima quali criminali di guerra per avere inflitto torture e sevizie a detenuti politici». Dunque, un deferimento, non una sentenza. Ma in quel mese di aprile, e peggio nei successivi, c’ era la fucilazione facile e bastò l’ intervento di Pertini a decidere la sorte dei due attori. Marozin voleva scambiarli con cinque dei suoi presi prigionieri dai tedeschi. Fallito il tentativo, non ebbe scrupoli a liberarsi dei due ingombranti personaggi e ad eseguire l’ ordine del partito (o solo dei socialisti? o solo di Pertini? o di quale membro del CLN?). Li aveva fatti trasferire, per «sicurezza», in una cascina nei pressi di Baggio, da certi suoi amici. Là Valenti trascorse le sue ultime giornate, nell’ illusione di avere trovato in Marozin un amico che gli prometteva di salvarlo. Lei era più scettica, aveva cominciato a capire. Il suo istinto le faceva vedere con più chiarezza una situazione che lo stralunato compagno non afferrava. Marozin, più che un partigiano, era un bandito e prima di liberarsi dei due prigionieri aveva provveduto a depredarli di tutto quanto possedevano, dodici bauli pieni di argenterie, pellicce e denaro. Un bottino da aggiungere al frutto della rapina milionaria compita alla Zecca nello stabilimento Alfieri e Lacroix. Che Valenti e la Ferida fossero innocenti e la loro fucilazione fosse piuttosto un assassinio, come fu poi provato dalla Corte d’ appello di Milano, non era affar suo. Non sarebbero stati due cadaveri in più o in meno a turbarlo. Proprio in quei giorni, senza sentir ragioni, aveva fatto fucilare il giovane conte Barbiano di Belgioioso e cinque suoi compagni, tutti partigiani, finiti in un suo posto di blocco e presi per fascisti. Valenti e la Ferida vissero in quella cascina fino alla sera del 28 aprile quando li trasferirono al comando di Marozin, in un appartamento di via Guerrazzi. Passavano il tempo tra speranza e sconforto, nell’ incertezza d’ una sorte che si faceva sempre più allarmante. Lei, incinta, aveva crisi di pianto e lui la confortava sentendosi rispondere che non sarebbe stato mai lasciato solo. Una notte, in quella cascina, Valenti fu processato davanti a un equivoco tribunale, composto da partigiani che erano stati poliziotti della RSI e da un misterioso individuo appartenente ai servizi segreti. Là fu confermata la sua condanna a morte, senza che nessuno gliene desse notizia. Là, con il passare delle ore, il dubbio di essere caduti in un tranello, di essere stati traditi da quel Marozin che li aveva lusingati con la prospettiva di salvarli, diventò certezza. In via Guerrazzi trascorsero le ultime ore, tra gente rastrellata per strada, ragazze accusate di essere andate con i fascisti, personaggi della spettrale fine d’ un regime. Stavano appoggiati al muro d’ una squallida cucina e aspettavano il loro momento. Arrivò con il camion che li avrebbe scaricati davanti ai mitra di via Poliziano. Al rumore degli spari, da una di quelle case scese in strada un prete, don Adolfo Terzoli, in tempo per impartire l’ estrema unzione a due cadaveri. Li aveva riconosciuti al lume della sua torcia, e del resto bastavano i cartelli posati sui loro corpi. Fu lui a chiamare l’ ambulanza e a salire a bordo, per accompagnare le salme all’ obitorio. Entrò e si sentì svenire. Sui tavoli di marmo c’ erano centoquaranta cadaveri raccolti nelle strade di Milano in quel solo giorno. Il 30 aprile 1945.

Bertoldi Silvio