Avendo avuto l’onore e il merito (o il disonore e il demerito, mettetela come vi pare) di aver divulgato questo film, mi permetto di postare queste mie brevi chiose nella speranza che l"amico Zardoz possa rivedere, se non il film, quanto meno il suo giudizio un po’ troppo impietoso
Il tema della prostituzione trattato in maniera “gioiosa” e bizzarra.
Curiosa bizzarria dei frizzanti anni settanta che fece parlare di sè, più che per i riscontri al botteghino (a onor del vero assai modesti) per esser stato il film visto dal “ragazzo di vita” Pino Pelosi poche ore prima di aver ucciso, almeno stando alle ricostruzioni processuali, il poeta, scrittore e regista Pier Paolo Pasolini.
Maria R. (Barbara Betti) è una prostituta trasteverina che cerca di vivere con ironia la sua professione intrattenendo rapporti di reciproca assistenza sia con il vicinato che con i propri clienti, chiamati per l’appunto i suoi “angeli”. Circondata dall’affetto dell’amica del cuore Lucrezia (Alberto Tarallo), un transone perennemente oggetto di angherie e di soprusi e al quale l’intero quartiere partecipa con una colletta per un auspicato cambio di sesso, Maria cerca di nascondere al figlioletto, che vive rigorosamente rinchiuso nel classico collegio, la reale fonte dei propri guadagni. Innamoratasi di un aspirante elettricista dell’azienda telefonica, deciderà di convolare con lui a giuste nozze, quale migliore occasione per abbandonare la vita di sempre. Purtroppo la venuta a conoscenza dell’amara verità da parte dell’amato metterà Maria davanti alle sue responsabilità.
Più volte trasmesso dalle prime “mitiche” televisioni libere (in tutti i sensi) ante “Legge Mammì” e sprofondato successivamente nel più totale oblìo per non essere mai più riproposto, “Maria R.” si inserisce in un sottogenere rivolto a descrivere le difficoltà morali e sociali incontrate da chi esercita la professione più antica del mondo.
A differenza di opere similari quali “Il magnaccio” (1968) di Franco De Rosis e “Prostituzione” (1974) di Rino Di Silvestro, basate su semplicistiche e stereotipate ricostruzioni degli ambienti di sfruttamento e di degrado, gli autori scelgono di affrontare la materia attraverso registri sorprendentemente scanzonati e bizzarri. Pur rimanendo nell’alveo di un sostanziale becerume, il clima generale e generalizzato di straniante pseudo-umanità esalato dalla pellicola, nonchè una poco curata sceneggiatura trattata alla maniera di un semplice canovaccio, si dimostrano in grado di trasfigurare in un’ottica quanto mai curiosa e involontaria ogni interprete della pellicola stessa in figure d’una verace e moderna commedia dell’arte.
I titoli di testa inspiegabilmente psichedelici accompagnati dai nomi degli attori e dei relativi strampalati personaggi, secondo una moda che verrà ripresa anche dal quasi coevo “Ultimo treno della notte” (1975) di Aldo Lado, aprono una vicenda girata in parte in bianco e nero (la vita della prostituta e il suo squallido contorno) e in parte a colori (l’incontro con il figlioletto; l’innamoramento).
Sul versante interpretativo, la “peperina” Barbara Betti, pur essendo chiamata ad agitarsi come una forsennata ora per satollare i suoi clienti, richiedenti anche rapporti fuori dai canali ehm…tradizionali, ora per occuparsi della sua vita privata, ora per dar manforte e sostegno al testè citato transone, non pare disponga delle qualità attoriali necessarie per assurgere a “mattatrice” della vicenda. Da ciò traggono vantaggio i numerosi buoni caratteristi rendendosi protagonisti di gags talora esilaranti, pur sconfinando senza ritegno alcuno nel più cristallino trash.
Se un ancor poco noto Alessandro Haber, avvezzo a ruoli negativi, è un feticista di biancheria femminile camuffato e doppiato in un improbabile siciliano, un incredibile Glauco Onorato decide di far fruttare la formazione teatrale ricevuta dall’Accademia d’arte drammatica di Silvio d’Amico per diventare nell’occasione un “amante a tassametro”. Autista di piazza e assiduo cliente di Maria ama prolungare il più possibile gli incontri con la nostra gioiosa meretrice abbandonando i malcapitati passeggeri nel suo taxi; a questi non rimarrà altro che immergersi nella lettura di un vecchio quotidiano e scapperarsi il naso in attesa di riprendere la corsa.
Alberto Tarallo, futuro produttore e arcinoto omosessuale, riveste a suo agio i panni del transone Lucrezia che sprecherà, suo malgrado, la grande occasione di passare a nuova vita come “soubrette en travesti”. In un provino in guisa di una “Cage aux Folles” ante litteram, darà vita a un delirante duetto con l’ipereffemminato e oggi compianto principe di casato Francesco Caracciolo, che andrà a far parte dell’ultima formazione delle “Sorelle Bandiera” in sostituzione dell’anziano e originario membro Tito Le Duc, ritiratosi a vita privata per raggiunti limiti d’età.
In linea con l’aura di mistero che accompagnò la genesi di codesta pellicola, rimangono forti dubbi circa l’identità del suo regista, qualificato nei titoli di testa con lo pseudonimo di “Elfriede” e identificato formalmente nei documenti ministeriali con la futura docente del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma 3 Diana Thermes. Un nome che pare preso a casaccio per motivi che restano a noi francamente oscuri, come non rispondente alla realtà potrebbe essere quello della documentarista e futura regista televisiva Elfriede Gaeng, la quale nel sito internet a essa dedicato farebbe coincidere il suo esordio dietro la macchina da presa con “Blu Elettrico”, film coprodotto dalla RAI e datato 1988. Ad avviso e azzardo e di chi scrive, l’effettivo responsabile potrebbe celarsi nella persona del tuttofare egiziano Frank (all’anagrafe Farouk) Agrama, che qui appare anche come aiuto regista (probabilmente di se stesso), nonchè organizzatore della produzione con la tal “Graffiti Italiani S.R.L.” formalmente intestata a certo Olfet El Sirgani (sic!), suo probabile concittadino e portatore di capitali esteri sulla cui provenienza sarebbe d’uopo non indagare! Personaggio attivo nel cinema di genere dell’epoca alla maniera d’un piccolo Dick Randall della situazione e tornato alla ribalta della cronaca come imputato nel processo per l’acquisto di diritti televisivi che coinvolse anche l’ex premier Silvio Berlusconi, tentò di farsi portavoce dei desiderata del pubblico delle terze visioni improvvisandosi improvvido regista nel delirante “Amico del Padrino” (1972) e proseguendo, con certo mestiere, nel film in esame. I topòi del genere in esso presenti, trattati con dinamiche squisitamente scioviniste e come tali incompatibili con una direzione da parte di un’esponente del gentil sesso, specie se di stampo intellettuale, consentiranno alle sartine di commuoversi oltre misura nel finale consolatorio e strappalacrime da romanzo d’appendice e ai militari in libera uscita di sollazzarsi con qualche fugace nudità della Betti, dialoghi sboccati e situazioni pruriginose.