Minority Report (Steven Spielberg, 2002)

“In a world of blinds who has eyes is king”

All’indomani della distruzione delle Twin Towers a New York, l’undici di Settembre del 2001, avemmo un po’ tutti sentore di imminenti modifiche nelle nostre rispettive società planetarie e di rimando, nella nostra personale e ordinaria quotidianità. La soglia del pericolo di attentati terroristici venne innalzata a tal punto che nell’animo della gente nacquero nuovi sospetti, nuove fobie, nuovi odi. Ci venne spiegato che “nulla sarà più come prima”: il nuovo mònito di stampo quasi millenaristico convinse tutti (o quasi) della necessità di implementare il livello di prevenzione del crimine attraverso un controllo capillare e sempre più invasivo: si instaurò, apertamente, l’attuale società della sorveglianza.

Minority Report, facente parte di un trittico che comprende anche War of the Worlds (2005) e Munich (2005), tratta proprio di questo argomento, proponendone una aperta critica, ispirata alla spontanea e logica domanda riguardo a “chi vigila sui vigilanti”. Pur essendo, in sé, un film tutt’altro che perfetto, fortemente sbilanciato in favore dell’aspetto propriamente spettacolare (si perde fin troppo frequentemente negli stereotipi di genere con incursioni addirittura nel grottesco che ne stemperano un poco la tensione drammatica), riesce comunque a mantenere vivo l’interessante discorso di fondo: l’utopia (negativa) di una poliziesca società perfetta, di concerto con una sorta di mistica tecnologica, giustifica e rende lecita l’intrusione nell’àmbito della riservatezza da parte di un qualsiasi apparato sia statale che privato (il ricorrente tema dell’occhio, infatti, è sufficientemente esplicito in questo senso), con l’apporto di una sorta di fatalismo ideologico che non contempla alternative né il ventaglio di possibilità che ciascuno di noi possiede.

In sostanza, le strade vengono, sì, ripulite dal delitto ma il prezzo da pagare è eccessivo: violata la sfera privata, divenuto troppo pericoloso pensare, i ricordi si possono contemplare unicamente tramite ologrammi. I rapporti umani sono, così, trasformati; non esiste possibilità di redenzione e il futuro delle persone viene artificialmente, oltre che arbitrariamente, alterato alla stessa maniera del corso di un fiume, il tutto in nome del buon vecchio quieto vivere.

Ma è risaputo: la strada per l’inferno è sempre lastricata di buone intenzioni…

Globalmente, un film che mi piace moltissimo ancora oggi. In sala, fino a 5 minuti dalla fine, ero praticamente convinto che fosse un capolavoro. Poi, arrivarono i suddetti ULTIMI 5 minuti, che mi fecero cadere le braccia, e altro. Come se Spielberg si vergognasse delle atmosfere, scure e cupe, che aveva sapientemente creato per il 99% della durata. Peccato. Ma si sa: nessuno è perfetto… :thinking:

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Tutto sommato trovo sia un discreto film pur con alcuni scivoloni, per così dire. Interessante per quanto riguarda la critica che propone nei confronti di una certa tecnolatria e la intrusiva società del controllo, temi sempre attualissimi. E’ vero: sono da considerare positivamente anche le atmosfere cupe volute dal regista, che danno quell’idea particolare, quel sentimento di oppressione.
Però, ricordo che la prima visione mi deluse parecchio.