Padri e Figlie - Fathers & Daughters (Gabriele Muccino, 2015)

New York, 1989: Jack Davis è uno scrittore di successo con una moglie e una figlia, Katie di 5 anni. Un gravissimo incidente stradale cambia le loro vite: la consorte muore e Jack si trova a dover allevare la bambina da solo, con la disgrazia che gli ha lasciato come postumi degli improvvisi violenti spasmi che lo costringono a ricoversarsi in clinica e ad affidare temporaneamente Katie agli zii Elizabeth e John. Al suo ritorno le cose peggiorano, perchè non solo la malattia non sembra dargli tregua ma il suo ultimo romanzo è un fiasco e i parenti vogliono ottenere l’affidamento della bambina, costringendolo a costose spese processuali che lo portano presto alla bancarotta.
Venticinque anni dopo sua figlia è diventata una splendida ragazza che lavora come psichiatra in una struttura per il recupero di bambini con gravi traumi psicologici. Bravissima nel suo lavoro di giorno, Katie di notte si rifugia in rapporti occasionali con sconosciuti, tentando vanamente di riempire il vuoto d’amore lasciato dall’assenza del padre senza rischiare di soffrire per un nuovo abbandono. Una sera incontra però Cameron, un ragazzo che si avvicina a lei incuriosito dall’opportunità di conoscere la protagonista del libro Padri e Figlie, scritto anni prima da Jack e divenuto il suo preferito. Fra i due inizia una relazione, con Cameron che cerca in ogni maniera di sciogliere il “cuore in inverno” di Katie.

Gabriele Muccino con Padri e figlie firma il suo film più ambizioso e allo stesso tempo più riuscito e maturo nel quale ritroviamo molti degli elementi caratteristici del suo cinema, emozionante emotivamente ma evitando scene di facile effetto, scegliendo un tono intimistico dalla struttura ad incastro con salti temporali di 25 anni senza confondere lo spettatore ed evitando il didascalismo della causa uguale ad effetto.
Altissima è la qualità delle interpretazioni di Russell Crowe e di Amanda Seyfried, il primo alle prese con il rischio di una recitazione caricaturale o troppo simile a quella del celebre A beautiful mind, la seconda con un ruolo che facilmente avrebbe potuto risultare sgradevole. Per narrare il conflitto che c’è in lei il regista sceglie di pedinarla con le pianosequenze e la inquadra con intensi primi e primissimi piani per cogliere nello sguardo, nelle espressioni del viso, quello che le parole non sanno o non possono esprimere e il pubblico non può non assolverla, non per pietà ma in quanto un essere umano e quindi fallibile.
Non si possono non citare anche la debuttante Kylie Rogers nella parte di Katie bambina, Aaron Paul in quella di Cameron, Diane Kruger come gelida zia e i “cameo di lusso” di Jane Fonda, Quvenzhane Wallis e Octavia Spencer.

Ottima anche la fotografia di Shane Hurlbut e le musiche di Paolo Buonvino, a cui si aggiungono un inedito di Jovanotti inserito in sottofondo in una scena con un effetto quasi subliminale e due brani cantati da Michael Bolton.

Numerosi sono i sottotesti presenti nel film, dal potere dei soldi all’ipocrisia di certi ambienti dove si può rapidamente passare “dalle stelle alle stalle”, ma il messaggio più importante è che i figli sono inevitabilmente il risultato delle proprie infanzie e anche quando i genitori ci hanno detto addio possono tornare ad aiutarci, anche attraverso un libro o una canzone che esce da un juke-box.