Forse per alcuni non era Cinema…ma uno dei piu grandi "cineasti" nostrani se n'e
andato qualche settimana fa…
Il disegnatore, maestro della scuola Disney, aveva 78 anni
E’ morto Romano Scarpa
Si è spento nella sua casa di Malaga. Dalla sua matita sono usciti alcuni celebri personaggi di Topolino, come Brigitta e Trudy
E’ stato tra i più grandi fumettisti italiani, riconosciuto maestro della scuola Disney italiana: il suo nome resterà nella memoria accanto a quello dei grandi Floyd Gottfredson e Carl Barks. Romano Scarpa, disegnatore e sceneggiatore veneziano, si è spento nella sua casa spagnola di Malaga, sabato 23 aprile alle sei del mattino, dopo una lunga malattia. Il 27 settembre prossimo avrebbe compiuto 78 anni. La notizia si è propagata rapidamente nella Rete, anche attraverso una mail di Luca Boschi, profondo conoscitore dell’universo disneyano, che ricorda Scarpa come «il più grande fumettista Disney in attività, un grandissimo nel pantheon degli autori che va a raggiungere Gottfredson, Barks, i compagni di lavoro Giovan Battista Carpi e Guido Martina.»
I SUOI PERSONAGGI - Se non ricordate il suo nome, certamente conoscete la testarda Brigitta, spasimante (mai ricambiata) di Paperon de’ Paperoni; il suo sconclusionato socio d’affari Filo Sganga; l’irruenta Trudy, gelosa fidanzata di Gambadilegno; il buffo Atomino Bip-Bip, Paperetta Yè Yè, il “Pippotarzan” e il giornalista Gedeon de’ Paperoni. Tutti questi personaggi sono stati creati proprio da Scarpa in mezzo secolo d’attività al servizio delle nuvole parlanti: un lavoro iniziato quasi per caso sui banchi di un istituto tecnico, ma sempre svolto con passione e serietà. Nel suo studio sono nate alcune delle più originali e avventurose storie di Topolino - quelle che molti bambini, negli anni ’50 e ’60, leggevano di nascosto da genitori e insegnanti. E nel suo studio ha iniziato a lavorare come inchiostratore Giorgio Cavazzano, tra i suoi più importanti successori, erede di un mestiere fatto di pazienza e creatività.
L’ESORDIO - La rivista «Topolino», così come la conosciamo, arrivò in edicola nella primavera del 1949, quando Mondadori ottenne il permesso di creare storie tutte italiane. Dopo Luciano Bottaro e Giovanni Battista Carpi, fu la volta di Romano Scarpa, che iniziò a collaborare con la redazione di «Topolino» dopo essere entrato in contatto con Carpi, durante un suo viaggio a Milano per curare lo sviluppo di un cartone animato. La prima storia che scrisse e disegnò per intero fu il racconto noir “Paperino e i gamberi in salmì”. A breve distanza seguì l’esordio nel mondo dei topi con Topolino e il mistero di Tapioco VI. Tra le sue storie più famose ricordiamo anche Topolino e il doppio segreto di Macchia Nera, il sorprendente giallo Topolino e l’unghia di Kalì e la saga delle Paperolimpiadi (250 tavole suddivise in otto puntate), ma anche la rilettura di classici della letteratura, come Il Milione di Marco Polo. Se la produzione nostrana di fumetti ha acquistato prestigio in tutto il mondo – persino negli Stati Uniti - lo dobbiamo certamente a Romano Scarpa. La sua scomparsa è un momento triste per tutti i lettori delle nuvole parlanti, ma anche l’occasione per rispolverare qualche vecchio albo a fumetti dalla soffitta e per tornare a sognare, tra piramidi e tesori, musei misteriosi e rane saltatrici.
Mara Pace
23 aprile 2005
FUMETTI
Il tocco magico di Scarpa
Sabato scorso ci ha lasciato Romano Scarpa, il più geniale dei «Disney italiani». Il maestro veneziano aveva 77 anni. Ha firmato più di 400 storie di Topolino e Paperino. E inventato Brigitta, Trudy, Filo Sganga, Gancetto e Atomino Bip-Bip
FRANCO PORCARELLI
Il lungo addio di Romano Scarpa è cominciato il giorno infausto in cui la mano lo ha tradito, e per la prima volta dopo innumerevoli anni, la matita debole non è riuscita a completare una tavola con gli amati personaggi. Il disegno era la sua vita. Creava poggiato su un minuscolo deschetto, tanto piccolo che passava inosservato, nei rari momenti in cui lo lasciava incustodito. Affacciarsi su quel tavolino, sui suoi fogli, sul suo mondo, dava però le vertigini. Dal nulla del riquadro bianco estraeva abbaglianti partiture visive, e soprattutto storie fantastiche ricche di inconfondibile humor. Aveva un «tocco» magico, che rendeva vive le sue favole. Pochi maestri del fumetto hanno saputo, come lui, incantare i lettori, anche giovanissimi, con intrecci meravigliosamente complicati, e coniugare suspense e sorriso, gag e avventura. Perfetta la sua padronanza dei meccanismi narrativi, perfetta la sintonia con i suoi «caratteri» - Topolino, Paperone, Paperino, Gambadilegno, Gancio - di cui esaltava ogni sfumatura espressiva.
Era modesto, mite, spiritoso, ma sorretto da una saldissima dirittura morale. Sono parole sue, ma sussurrate: «Credo nell’onestà, nella rettitudine, nella giustizia; non esistono scorciatoie, i furbi non mi sono mai piaciuti». Degne di un personaggio di John Ford, sullo sfondo della Monument Valley. Si riteneva un grande artigiano, proprio come John Ford, e come John Ford (ma certo con maggiore educazione e stupore) immagino cosa avrebbe replicato a un suo ammiratore - un Bogdanovich - che l’avesse chiamato «Genio»: «Cut!», avrebbe detto, taglia qui! No, non si può tagliare. I ricordi sono tanti. La riconoscenza, infinita.
Ovvio, che non voleva lo si chiamasse «Genio». Ma lo era. Genio negletto, naturalmente, assorbito e desaparecido in una catena industriale e in un marchio irresistibile - Walt Disney Company!- che triturando storie a grappoli, ha nascosto a tutti, per anni, il suo nome e la sua arte.
Romano Scarpa, specie agli inizi, non se ne dispiaceva più di tanto. Non che il suo scopo fosse quello di starsene tranquillo, e creare al riparo di simboli e personaggi di sicuro successo. Quando disegnava le «sue» storie, non ha mai ceduto alla routine. Non si è ripetuto, non si è copiato, neanche per una singola vignetta. Piuttosto, era totale la sua adesione al mondo fantastico e morale della Banda Disney, allo «spirito» che pervadeva i cartoni originali, quello delle Silly Symphonies, del Mickey scatenato degli esordi. Scarpa era un idealista, un utopista disneyano.
Walt Disney, una volta, sarebbe stato costretto a confessare: «Io sono Topolino». Non gli prestava solo la voce, ma l’anima. Credo che Scarpa, a maggior diritto, avrebbe potuto dire: «Io sono Walt Disney».
Lui era più autentico dell’originale, in certo senso. Infatti il povero, geniale Walt, incontrava difficoltà con i suoi stessi «studios» per realizzare i suoi progetti. Alla sua ombra Scarpa poteva coltivare, invece, tutto e solo, il suo lato sognatore.
Non stupisce quindi, se in qualche storia antica (come nella deliziosa Topolino e il Mistero di Tapioco VI), proprio quello abbia fatto: firmarsi, ogni quattro vignette, col nome stesso del suo nume tutelare, «Walt Disney».
Walt non era un cannone, con la matita. Romano era prodigioso.
Prima di lui c’era stato il Topolino di Gottfredson, e il Paperino di Carl Barks; Topolinia e Paperopoli, due mondi distinti, distanti in modo assurdo, imbarazzante. E intanto Mickey Mouse sbiadiva nelle strisce quotidiane sui giornali, tramontava dai cartoni abbinati alle pellicole di prima visione. Romano Scarpa è stato l’unico, nel panorama internazionale dei disegnatori delle scuderie Disney, che abbia unificato quei due mondi, che li abbia rivitalizzati, che potesse dirsi continuatore, tanto di Gottfredson, che di Barks. Il lettore cerchi, per prova, nella miriade delle ristampe, la saga di Topolino e Atomino, che si apre con Topolino e la dimensione Delta, e che prosegue con gemme impagabili come Le Sorgenti Mongole, La collana dei Chirikawa, l’Imperatore della Calidornia, o il Bip-Bip 15. Rintracci (oppure attenda l’inevitabile ripubblicazione) il suo racconto forse più famoso: Topolino e l’Unghia di Khalì. Insegua il Pippotarzan, La fiamma eterna di Kaloa o Topolino e l’Ultraghiaccio, molto più raro. Si appaghi dell’esilarante Paperino de La leggenda di Paperin Hood, Le lenticchie di Babilonia, Paperino e la farfalla di Colombo, o le Paperolimpiadi del 1988 (un tour de force di 250 tavole!). Ogni tanto adocchi la collana «i Maestri Disney», che tributa a Scarpa numeri indimenticabili. Oppure, oppure… oppure: quanti potrebbero essere gli esempi. Ogni assaggio è riduttivo. Avvicinata una sua storia, si ritorna bambini, subito se ne vorrebbero leggere altre, e poi altre ancora.
Prima di lasciarci, Romano Scarpa ha avuto la soddisfazione di vedersi pubblicato, già come un «classico», negli Stati Uniti.
Il prodigio è che Scarpa sia riuscito ad ottenere certi risultati dall’Italia, estrema periferia dell’impero-Disney.
Il «Topolino» italiano nasceva e rigogliava, a ridosso degli anni 50, seguendo strade contrapposte alle sue: la «parodia», la goliardia, un’esasperata comicità «fisica» dei personaggi, l’ «italianizzazione», l’esagerazione «popolare» dei difetti corporali e delle debolezze umane.
Paperino mangiava «poponi» e si beccava uno sciame d’api nel di dietro. Paladino di questa versione «caricaturale» del mondo-Disney, era Guido Martina, capo degli sceneggiatori, anzi meglio, per anni, sceneggiatore-unico della rivista Topolino di Arnoldo Mondadori. Fu lui a inventare le «grandi parodie», con L’Inferno di Topolino, nel 1949. Martina era dotato di un grande talento, che andrebbe rivalutato e riscoperto. Ma, come «autore», era agli antipodi di Romano Scarpa, che pure lo rispettava tantissimo. Faceva splendidi canovacci, e usava Paperino, Paperone, Gastone, come altrettante maschere della Commedia dell’Arte. Scarpa, che pure era veneziano, non apprezzava queste pantalonate, ed aborriva che il mondo mitico, ideale, di Walt Disney, venisse ridotto a una variazione sui «caratteri» che recitavano «a soggetto».
Scarpa traeva le sue ispirazioni da una cosmografia lontana anni luce dall’italianissimo Topolino. Lo splendido Paperino e la leggenda dello Scozzese Volante nasce, per esempio, da una notizia di cronaca, di quelle che sarebbero piaciute a Charles Fort: a Tegucigalpa s’era verificata «una pioggia di sardine». Il Maestro si ingegnò allora a costruirci intorno una storia barksiana in cui ci fosse un «peschereccio» volante - un galeone sollevato sopra le onde da un’antica maledizione - che facesse piovere le sardine dal cielo, e sopra vi pose, al comando, un antenato, ancorché vivo e vegeto, del tirchissimo Paperon de Paperoni.
Paperino e il Colosso del Nilo scaturì per un’altra di queste geniali intuizioni. Si discuteva, in quegli anni, sull’espediente giusto che potesse salvare i colossi egiziani di Abu Simbel, destinati a scomparire nelle acque, appena fosse stata costruita una diga. Scarpa ne prese spunto per un’avventura comicissima, in cui suggerì, per primo!, di segare le statue, ridurle a blocchi numerati, e ricostruirle a monte, dove le acque non sarebbero arrivate. Così fu fatto, alcuni anni dopo, e con maggior fortuna di Paperino, che rimontando male i blocchi numerati si trovò di fronte una ciclopica scultura astratta degna di Henry Moore.
Anche Romano Scarpa faceva «parodie», ma il senso delle sue «rivisitazioni» era tutt’altro di quello in voga nella sua rivista. Se sono «parodie», si vede subito che non hanno un preciso originale da copiare, da mimare, da sbeffeggiare. Sono parodie «complici».
In Topolino e l’Uomo di Altacraz, non si vede neppure un canarino, e il protagonista, contrariamente a Burt Lancaster, resta in prigione per una manciata di vignette. In Paperin Hood, come in Paperino 3 D, ad esser parodiata è la televisione; in Topolino e il gigante della pubblicità (storia tanto preveggente, quanto scomoda, perché non fu mai ripubblicata per trent’anni!), nel mirino della parodia c’è lo spot televisivo, onnivoro, fraudolento.
Con una simile collana di perfette creazioni alle spalle, parrebbe impossibile che Romano Scarpa si sia considerato, per decenni, quasi «in parcheggio»: si riteneva un filmaker, un realizzatore di cartoni animati prestato ai Fumetti.
Una delle sue ultime gioie era stata quella di ritrovare e rivedere una vecchia copia del suo primo, vero, cartone animato: La piccola fiammiferaia, del 1951. Nonostante la distanza d’anni, e le difficoltà produttive di allora, lo inorgogliva che fosse un prodotto ancora presentabile.
Era pronto, in qualsiasi momento, a spiccare il volo verso ogni Disneyland che l’avesse chiamato per trasformare in film, o serie, i suoi progetti.
Aveva nel cassetto schizzi e modelli meravigliosi di Chriscol, storia di un indio che fa, al contrario, lo stesso viaggio di scoperta di Cristoforo Colombo, e approda in Europa nel 1492. Un’altra serie era (quasi) riuscito a realizzarla per la Rai: Sopra i tetti di Venezia, che aveva ideato e per cui aveva a lungo lavorato negli anni 90, ma che non era riuscito a rendere, come voleva, una creatura «sua».
La verità è che Romano Scarpa non ha mai smesso di fare il filmaker.
I suoi fumetti erano, sono, film. Non succedanei dei film, ma, mi si perdoni il neologismo, antecedanei. Per un ragazzino, avvicinarsi alle sue storie, voleva dire sintonizzarsi su un mondo mitico in cui fumetto e cinema erano riconciliati in un ideale archetipo comune.
Il Topolino-James Stewart della Collana dei Chirikawa, è più che una citazione. E Il favoloso regno di Shan-Gri Là in cui Topolino combatte un viscido e bieco Pietro Gambadilegno non ha niente da invidiare all’ Orizzonte perduto di Frank Capra.
Anche le sue ultime storie «vere» per il Topolino italiano sono omaggi al cinema, in forma di piccoli film. Per giungere a tanta perfezione finale, il maestro aveva maturato una lunga e saggia evoluzione.
Scarpa voleva infatti che i suoi disegni fossero all’altezza delle sue vertiginose immaginazioni, ed era riuscito a sviluppare il tratto, a modernizzarlo, al punto da scioccare i suoi ammiratori, già alla fine degli anni 60, e a non farsi riconoscere, quasi, dai più distratti. Non era affatto indulgente verso i suoi grandi classici, quelli degli anni 56-62. Gli parevano involuti nel disegno, rigidi nelle chine. Non sopportava la sua arte fosse identificata con un periodo in cui il segno gli sembrava tanto inadeguato. Quando fu padrone assoluto delle sue matite maturò ed eseguì l’ultimo dei suoi grandi progetti. Ora, che sapeva dipingere impareggiabili e geniali grandi tavole colorate, rimpicciolì il suo sguardo - ma non la sua ispirazione - e realizzò strip-stories, storie strette a strisce con Topolino protagonista, come nell’epoca eroica del fumetto. Tre o quattro vignette tenevano vivo l’intreccio, poi si chiudevano immancabilmente con una gag visiva. Queste favole definitive avevano titoli inequivocabili: Brigaboon, e, l’ultima, Minnotschka. Vi rifulgeva il tocco di Lubitsch, la vena di Minnelli, lo spirito di Preston Sturges e del new deal rooseveltiano, come se solo il mondo-Disney e le sue creature potessero dirsene eredi. Ancora una volta: fumetto e film, riconciliati, pacificati, sorridenti, sognanti, insieme.
Romano Scarpa fino all’ultimo, ha reso accessibili ai ragazzi, ai più giovani, i segreti del grande cinema, avvicinandoci tutti ai meccanismi e all’essenza stessa della «narrazione per immagini».
Non c’è solo il piacere del testo, in lui, ma vera «gioia della narrazione». La gioia che ci danno le sue tavole, non si spegnerà.