The Clan’s Heir is a Trans Woman (Hitoshi Ozawa, 2013)

L’oyabun del clan Tatsumi, sul letto di morte, esprime l’ultimo inTRANSigente desiderio. Le redini devono passare al figlio. eh ma dov’è il giovane? bisogna cercarlo perche è scomparso nel nulla 15 anni prima. Alla ricerca dell’erede prescelto, il fedele Ryu e gli altri aniki lo scovano ma ora è diventato una ballerina trans a Kabukicho. Are!? Baka Yarou!
Nonostante le titubanze, Ryu e i nostri (ombre arcobaleno anche nel loro passato) giurano fedeltà LGBTQ+ al nuovo boss con l’intento di abbattere la transfobia dell’ostile cricca Honjoukai. via di yubitsume, con un tocco di fard, prego

Hitoshi Ozawa è volto noto in una sfilza di V-cinema trashoni, nonchè parti di contorno in cose come Dead or Alive di Miike e Boiling Point di Kitano giusto per citarne due.
Questa volta passa anche dietro la macchina da presa, decidendo di mandare in corto circuito il rigido canone yakuza, sabotando sia il tanto caro, fortissimo omoerotismo che la preziosa, inoppugnabile misoginia connaturati al genere.
Questo “la seconda generazione è newhalf” è arguto nella sua ingenuità, diverte
e commuove grazie al contrasto fra il ruvido, rugoso Ozawa e la protagonista Beru
(o Bell all’Inglese, di professione “entertainer” all’okama bar Hige Girl, uno dei tanti
luoghi di ambigua perdizione del red district per eccellenza)

Ozawa non ha chissà che grandi mire o riferimenti, sembra di assistere ad un proto
Reservoir Dogs in salsa Priscilla la regina del deserto. Procedendo il film acquista invece una sua precisa e definita dignità, la struttura ricalca fedelmente la tipica conformazione del filone con l’elemento portante dell’epilogo (lo showdown finale vale da solo il prezzo del biglietto).
Anche il fatto che possa apparire così poco ricercato e grezzo (in digitale tipo straight to video, costumi e prop di scena di seconda mano) gioca a suo favore.
Inoltre sono la natura strettamente insulare dello yakuza eiga e la sensibilità nipponica circa le istanze di inclusività e fluidità di genere a creare il vero paradosso straniante e spassoso, con l’equivoco al centro del plot.
La protagonista a volte si definisce onna (donna), altre okama (travestito) e le donne trans newhalf o otoko (uomini). retaggio degli onnagata kabuki, che dicevano un tempo : “solo gli uomini sanno come ci si può sentire a vivere da donne

Il genuino afflato progressista del rozzissimo Ozawa appare persino tenero. è tutto meno che un poser, quanto gliene potrà infatti fregare a uno che non mette il naso
fuori dal suo quartiere di maneggiare con cura e filtrare la sfilza di innuendo, grevi allusioni a minoranze sessuali, travestitismi e via dicendo…

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