The Forest (Paul Spurrier, 2016)

Spurrier si conferma un autore sui generis, a parer mio tanto marginale quanto affascinante. Marginale nel senso che si pone ai margini del cinema mainstream e commerciale, realizzando prodotti che rientrano nei canoni di quel cinema che potrebbe fare botteghino ma al contempo fregandosene degli esiti commerciali del film, inserendo elementi e tematiche che difficilmente incontreranno i gusti del grande pubblico. Una grande cura della fotografia e una sapiente scrittura sanno creare atmosfere poetiche e di sogno, regalandoci immagini che sono una gioia per gli occhi, grazie anche alla capacità di scegliere e saper sfruttare al meglio paesaggi e location naturali davvero mozzafiato.

Le cifre stilistiche sono senza dubbio la scelta di produrre e realizzare i suoi film in Thailandia (con il conseguente grande amore che riverbera per la cultura tradizionale di quel paese ma al contempo la volontà di metterne in risalto anche le ombre e le grandi contraddizioni sociali) e la grande attenzione per l’infanzia, che riesce a trattare sempre con estrema delicatezza ed intensità, mostrandone le sfaccettature più intime, gli aspetti più sensibili, le caratteristiche più controverse e contraddittorie. Tra innocenza e crudeltà, capacità di sognare ed impotenza, osserviamo i piccoli protagonisti delle opere del regista britannico compiere il proprio destino nel tentativo di superare soprusi ed ingiustizie derivanti dalle ineguaglianze delle strutture sociali del mondo degli adulti.

Se nel film d’esordio Underground mancava completamente l’elemento fantastico, a partire da P in poi, quindi in coincidenza con la virata thailandese di Spurrier, la magia, il soprannaturale, la superstizione diventano una componente fondamentale e tangibile del suo universo filmico, una dimensione concreta e palpitante che dà senso e forma al reale. Si tratta di una componente che spesso è anche macabra, violenta, esiziale, traboccante di torbida vendetta.

In questo film, il soprannaturale è presente ma tende a rendersi invisibile, a compenetrare la vicenda in modo concreto ma discreto, solo alla fine ci si rende conto della sua vera pregnanza. E l’elemento macabro e raccapricciante, pur essendo presente è assolutamente marginale. A farla da padroni sono la componente emotiva e le dinamiche relazionali, la sofferenza di una bambina che a seguito di un trauma adotta il mutismo selettivo e la crudeltà con cui i compagni di classe la isolano e stigmatizzano in un contesto culturale nel quale difficilmente vengono accettate certe forme di diversità. Ed è anche la storia di un insegnante in grado di tessere fili che creano legami, capace di dare valore alle individualità e di infondere speranza e fiducia in sé stessi. Ma è anche la storia della sua sconfitta, dell’impossibilità di trasformare un ecosistema tradizionale nel quale sussiste un approccio chiuso, individualista, bigotto e violento.

Un film dal grande fascino, che ho inseguito per anni e che non mi ha deluso.

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