Continuo a discutere con un amico che trova invece il film bellissimo, ecco l’ultima email che gli ho mandato (lui mi portava ad esempio la rece di Massimo Camisasca che posto più sotto.
Come tutte le cose anche questo film ognuno lo vede interpreta col filtro del suo bagaglio culturale, per cui se Camisasca lo vede come dio personale, creatore, io vedo invece una natura che puo’ essere bellissima ma anche durissima, e non c’e’ nulla di divino in questo, ci siamo noi poveri esseri spauriti sulla terra che ci chiediamo continuamente se ci sia un dio e chi sia, domande ovviamente senza risposta perche’ la natura, o il caos, non puo’ risponderci come non poteva rispondere ai dinosauri, come non ci puo’ rispondere una pianta o una roccia. Ma al di la’ delle intenzioni e del significato del film, il problema poi e’ la sua realizzazione. E qui il caro Malick a mio avviso ha ecceduto di self confidence, con un film troppo lungo, girato da dio si’, ma troppo spesso di una noia mortale: gran belle immagini, piu’ per un documentario che per un film. Ecco, forse se non avessi saputo che era di Malick, mi sarei dovuto vedere il film cannamunito stile video dei Pink Floyd, e allora l’avrei apprezzato di piu’. Mi dirai che se ne stiamo a discutere cosi’ tanto il suo risultato Malick l’ha gia’ raggiunto, io pero’ continuo a ritenerlo un film fin troppo complesso che nel cercare di mettere troppa carne al fuoco alla fine crea un pastrocchio, oltretutto peccando pure di originalita’, con la scena finale rubato paro paro da Kubrick. E, forse lo sai forse no, non e’ che io sia uno da cinepanettoni, gli altri Malick li avevo visti e apprezzati, ma allora se vogliamo stare sul cinema cosidetto ‘autoriale’ preferisco Nuovo Mondo di Crialese, tanto per fare un esempio. Il cinema e’ alla sua radice immagine in movimento, creata per entertainment, che puo’ essere tradotto come divertimento, o ancora meglio intrattenimento. E non si puo’ prescindere da questo assioma. Poi potra’ anche diventare arte, ma rimane ancorata al concetto di base. Quindi, sorry for Mr Malick, capisco le intenzioni, ma stavolta il voto e’ 5, o 6-, si vede che ha studiato ma lo svolgimento e’ troppo confusionario.
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“The Tree of Life”: la nuova domanda, secondo Malick
Scritto da Massimo Camisasca il 10 giugno 2011 ·
Le persone veramente acute sono quelle che non si limitano a rispondere alle
domande di tutti, ma ne sanno porre di nuove. In questo modo, essi aprono
scenari non scontati e profondi. Terrence Malick, nei suoi ultimi film,
ribalta, quasi in un crescendo, la domanda di sempre: «chi è Dio per noi?» e la
trasforma in una nuova domanda, mutando così profondamente la prospettiva: «chi
siamo noi per Dio? chi sono io per Lui? chi sono io per Te?».
The Tree of Life è un dialogo continuo fra molti io e un Tu. I differenti io
sono i protagonisti del film. Ma c’è un protagonista nascosto eppure sempre
presente, che è il tu di Dio. In questa ultima opera di Malick non c’è
possibilità di equivoco. Il Dio di Malick non è un dio panteista, come hanno
scritto alcuni critici anche sull’autorevole Corriere della Sera, copiando la
recensione dei film precedenti di Malick che Morandini ha tracciato nel suo
Dizionario. Il Dio di Malick è un Dio personale, altrimenti quel dialogo fra
Dio e i tu non avrebbe senso.
Il Dio di Malick è un Dio creatore. Da sempre il regista è interrogato dalla
natura, che in quest’ultima opera è considerata in modo nuovo: non solo l’
infinitamente grande delle stelle, ma anche l’infinitamente piccolo. Egli
guarda la natura non solo attraverso il telescopio, ma anche attraverso il
microscopio.
A quale Dio si riferisca Malick d’altra parte è chiaro già subito nell’esergo
del film, che è un versetto del libro di Giobbe. Dio parla a Giobbe dicendogli:
“Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?”. Sembrerebbe l’
espressione soltanto della sproporzione infinita fra Dio e l’uomo, che
impedirebbe all’uomo di parlare e di pensare. Ma questa non è la conclusione di
Giobbe. E non è questa la conclusione di Malick. C’è la possibilità, per l’
uomo, di compiere almeno in parte il cammino infinito che va da lui a Dio. E
una delle strade possibili è proprio l’immensità della natura, che genera nell’
uomo stupore, smarrimento, sorpresa, sgomento, e che, infine, si rivela anche
come compagnia.
Nei film di Malick abbonda il verde. Indubbiamente è il suo colore preferito,
insieme all’azzurro dei cieli e del mare. Questi sono, a mio parere, i due
colori primordiali. Se consideriamo che la luce, cioè l’oro, riguarda piuttosto
lo splendore increato di Dio, i colori della Creazione sono proprio questi: il
verde e l’azzurro. Spesso nei suoi film, per definire lo spettacolo della
natura ha usato la parola «gloria», un termine che attraversa profondamente
tutta la tradizione giudaico-cristiana.
Nella Creazione, Dio si rivela come padre, donatore di vita. Il tema del
“padre” è il tema centrale di questo film. Tema arduo, difficile da affrontare,
perché difficile e contraddittoria è l’esperienza stessa della paternità. L’
asse su cui ruota tutta quanta quest’ultima produzione di Malick è la domanda:
vi è un rapporto fra la paternità in cielo e la paternità sulla terra? Il padre
terreno, un imprenditore del Texas – interpretato da Brad Pitt -, è molto
realistico e veritiero. È un uomo che vorrebbe amare e non sa amare. Un uomo
che esprime con tutta la sua fisicità il rapporto che vorrebbe avere con i
figli: li abbraccia, li stringe a sé, invoca il loro affetto ma, nello stesso
tempo, li tiene a distanza. Vuole essere chiamato “signore”. In questo modo li
disorienta e genera in loro l’ipotesi che il padre non sappia veramente
accoglierli, che il padre sia pura negatività a cui sottrarsi, anche col
suicidio. Uno dei figli, infatti, si ucciderà.
La crisi della paternità, fra l’altro, porta con sé anche quella della
maternità. Il figlio non accusa soltanto il padre, ma anche la madre,
incolpandola di non essere stata capace di aiutare il padre ad essere tale. Il
tema, come si vede, è altamente drammatico. Il film non è una tela dipinta da
un pittore buonista. Non si preclude nessuna domanda apocalittica. E se infine
vincesse il male? E se infine fosse il male a farla da padrone?
Il tema della lotta fra bene e male è l’altro asse intorno a cui si può
leggere l’intera opera di Malick. Non tutto nella storia del mondo può essere
capito. Per esempio, i dinosauri che sono pure protagonisti di questo film
(quante cose, direte voi! È impossibile raccogliere tutte, in una sola
recensione e soprattutto è impossibile ridurre tutto ad unità, di fronte a un
film così polimorfo, così ricco di suggestioni, e anche di contraddizioni, che
non vogliono essere superate in modo meccanico e pacificatorio). I dinosauri
rappresentano un buco nero nella storia del mondo. Gli studiosi dell’evoluzione
forse possono dare delle loro risposte. Ma certamente l’esistenza di questi
immensi animali, che sopravvivevano distruggendosi a vicenda, che vivevano del
tributo di sangue dell’altro, sottende un interrogativo profondo sul
significato della storia della natura, che perdura anche oggi, con i suoi
misteri. Ancora oggi, nell’infinitamente grande dei maremoti e dei terremoti e
nell’infinitamente piccolo dei batteri, la storia della natura coniuga
sopravvivenza e morte in uno strano balletto, di cui l’uomo non può tenere le
fila.
Ma The Tree of Life non si ferma al Dio creatore. È presente anche il tema
della salvezza. Non mancano le immagini esplicite di Cristo, come la vetrata di
una chiesa a lungo contemplata dal ragazzo, oppure la genuflessione del padre
davanti al Santissimo Sacramento. Cenni, dunque, non solo a Cristo, ma al
Cristo così com’è visto e vissuto nella Chiesa Cattolica. Richiederebbe molte
pagine rintracciare i segni cristologici lungo l’arco del film. Quello più
evidente è proprio il titolo, L’albero della vita, che rappresenta la sintesi
delle culture pagana giudaica e cristiana. Nello stesso tempo, è l’albero del
cortile di casa, a cui si appendono le altalene per giocare, un’altra
esperienza evidentemente molto cara a Malick, che ritorna nei suoi film.
Il tema cristologico è poi ripreso proprio alla fine, quando, sulla riva del
mare, si ha l’esperienza iniziale di ciò che sarà la vita oltre la morte: una
vita finalmente pacificata, in cui le diverse generazioni degli uomini e le
diverse età della vita di uno stesso uomo si incontrano in uno sguardo
armonioso. I colori di questo paradiso sono piuttosto i colori del purgatorio
dantesco: l’azzurro e il rosa. Non c’è il sole. Penso che Malick abbia voluto
qui trasmettere il messaggio di una esistenza riconciliata, non più bruciata
dal calore delle passioni.
Il film non parla soltanto del passato, della creazione del mondo, dei
dinosauri, o del passato di una famiglia, guardato attraverso gli occhi dei
ricordi, dei flashback ricorrenti, lungo lo scorrere dei fotogrammi. Guarda
anche al futuro: alla vita oltre la morte, ma anche al futuro su questa terra.
I grattacieli di Houston, tutti di vetro, capaci cioè di riflettere il cielo,
indicano che è possibile un rapporto armonico fra l’uomo e la natura. Il
figlio, che a diciannove anni si era ucciso, rivive nel fratello, ormai
diventato grande, imprenditore, interpretato nel film da Sean Penn, un attore
caro a Malick, che lo aveva già impiegato in altri suoi capolavori.
Non solo esiste la vita oltre la morte, ma c’è anche la possibilità di
scoprire già in questa vita un senso insito in ciò che accade. Esiste almeno la
possibilità di continuare a interrogarci. Non soltanto di chiedere a Dio: chi
sei tu per noi? Ma soprattutto di chiedere a lui: chi sono io per te? In questo
senso, la fonte primaria dei film di Malick, non solo dal punto di vista
letterario, sono i Salmi. Se si rileggono i salmi attraverso questi film, e si
rileggono questi film attraverso i salmi, si può vivere un’utile
contaminazione, che, senza condurci assolutamente in un terreno new age, ci
radica nella storia di Israele, in quella della Chiesa e infine nella storia di
Dio.