al via il 27 agosto la mostra del cinema
Le nuove rotte di Venezia
Tatti Sanguineti: «All’Italia non servono solo maestri dobbiamo recuperare i registi di seconda e terza fila»
VENEZIA - «I fantasmi non esistono: i fantasmi siamo noi», diceva Eduardo a proposito di una delle sue commedie più celebri, «Questi fantasmi », appunto. «I fantasmi esistono, eccome. E magari ne avessimo ancora », sospira Tatti Sanguineti, che con Sergio Toffetti ha curato la retrospettiva sul Cinema italiano ritrovato prossimamente di scena alla 65ma Mostra veneziana con l’evocativo titolo Questi fantasmi. Ovvero quei film e quei registi che per trent’anni, dal 1946 al 1975, hanno fatto la ricchezza della nostra industria dello schermo e poi sono spariti, inghiottiti nell’oblio, cancellati dalle cronache.
RESTAURI - «Militi ignoti di un cinema parallelo a quello dei grandi nomi, ricco di fior di professionisti, anzi di veri talenti, relegati però nelle seconde e terze file dall’ombra ingombrante dei grandi maestri, da Fellini a Pasolini, da Rossellini a Visconti», prosegue Sanguineti. Il cinema di Zampa ( Anni difficili, accusato ai tempi di «speculazione sulle brutture della patria», tornerà restaurato dal laboratorio l’Immagine ritrovata della Cineteca di Bologna), il cinema di Bolognini, Franco Rossi, Emanuele Luzzati, Giorgio Bianchi, Duilio Coletti, Vittorio Caprioli, Luciano Salce… «Un cinema di generi — precisa Sanguineti —. Dal comico al western, dall’erotico all’horror. Una varietà straordinaria di opere e di registi, molti dei quali sono andati sprecati. Allora si sfornavano circa 200 titoli l’anno, oggi sì e no arriviamo a un quarto». Generi. Termine archiviato dalla nostra produzione. «Già. Con gli Anni '90 l’autore ha soppiantato il regista, ormai basta un film e sei subito autore. Invece, per essere grande, un cinema deve avere sì i maestri ma anche una schiera di professionisti medio- alti capaci di grande versatilità. Come quelli che abbiamo voluto riproporre all’attenzione del festival.
MADE IN ITALY - Registi che hanno seminato ricchezza, creato tanti posti di lavoro. E con i loro film hanno anche creato il marchio di un made in Italy, tuttora l’unico riconosciuto all’estero: quello delle maggiorate, dei bulli, dei preti, dei borgatari, dei furbastri. Se la nostra identità fuori dai confini è ancora fissata in quei cliché è perché nessun altro ha saputo inventarne di nuovi. In realtà, quelle seconde e terze file dei registi di allora oggi sarebbero le nostre prime file. Monicelli, per esempio, ora è considerato un genio e lo è, ma a quei tempi faceva parte del plotone di media grandezza».
PUPI AVATI E GLI ALTRI - Quindi non resta proprio nulla di quella tradizione? «L’unico epigono direi che è Pupi Avati. Il solo cineasta italiano di oggi in grado per velocità, duttilità e mestiere di dirigere due film all’anno, di esplorare ancora i generi, dalla commedia all’horror al giallo. E ora con Il papà di Giovanna si cimenta anche nel noir. Pupi inoltre è un grande domatore di attori, sa dirigere con mano sicura sia i colonnelli sia le reclute… Una figura anomala, al passo della vecchia guardia ». E gli altri tre italiani in concorso a Venezia, come li classificherebbe secondo quest’ottica? «Da un certo punto di vista Ozpetek, ora in gara con Un giorno perfetto è in qualche modo anche lui erede di quel dna. A differenza del cosiddetto “autore”, Ferzan gira copioni scritti da altri, il bravo Gianni Romoli, e lo fa con assoluta padronanza». Altra storia quella di Corsicato, alla Mostra con Il seme della discordia, commedia grottesca sul tema scottante dell’inseminazione artificiale. «Pappi è un “californiano”, uno che fa tutto da solo, uno sperimentatore fuori da ogni schema. Imprime il suo marchio in ogni film. Una creatura tutta a sé». Infine, il quarto concorrente, Marco Bechis. «Nel suo caso il termine “autore” va a pennello. Bechis ha un suo mondo da raccontare. Ha provato sulla propria pelle l’esperienza di segregazione riferita in Garage Olimpo. Se c’era uno con una storia urgente da far conoscere, era lui. E anche questo nuovo film che porta alla Mostra, La terra degli uomini rossi tratta dello sfruttamento della natura, dei semi transgenici che violentano le coltivazioni e portano povertà e dolore tra i contadini del Mato Grosso. Un regista giramondo, poco italiano».
IL DIGITALE - Tutto questo lascia pensare che, dopo di questi, non ci saranno più altri fantasmi. I critici che verranno, troveranno ben poco da riscoprire? «Forse non è del tutto vero. Qualche fantasma si aggira ancora per il cinema italiano. Il digitale ha democratizzato l’accesso alla produzione, facilitando un cinema fai da te. Con somme accessibili, da 5000 a 25 mila euro oggi si può realizzare un film. E, a quanto mi risulta con questo sistema ogni anno vengono prodotti nel nostro Paese una quarantina di lungometraggi di cui però non esiste mappatura, non si sa nulla, se va bene finiscono per una sera a qualche festival minore. Un nuovo cinema autarchico, quasi clandestino, che però muove un giro di denaro non indifferente. Può darsi che in questo paniere a cercare bene si possa trovar qualcosa di buono, di nuovo. Però, chi avrà la voglia e la pazienza di farlo?»
Giuseppina Manin
25 agosto 2008