Mi perdonate una recensione se vi dico che questo film è uno dei pochissimi motivi che mi ha spinto ad occuparmi un po’ più da vicino di cinema?
Voglio la testa di Sam Peckinpah!
Questo più o meno doveva essere l’urlo lancinato e rassegnato, non meno colmo di fragorosa rabbia di quello lanciato dal padrino/padrone della hacienda messicana El Jefe all’inizio del film, dei signori di Hollywood nel corso produttivo di Bring Me the Head of Alfredo Garcia. Il momento d’ispirazione, dopo la discesa negli abissi dell’alcool e prima dei paradisi artificiali della cocaina, era talmente intenso che Peckinpah era nel pieno della consapevolezza che quella sarebbe stata l’opera decisiva, la più folgorata, quella definitiva, senza dover per forza (come poi di fatto non lo sarà) essere l’ultima, e che ne avrebbe fatto ciò che più gli pareva.
Estrema, tanto per utilizzare uno degli aggettivi più abusati, ma per una volta tanto con un senso davvero forte poiché non v’è nulla di più estremo della morte. E Voglio la testa di Garcia è proprio un film sulla morte, più che su qualsiasi altra cosa. Innanzitutto la tremebonda messa a morte di un genere che lavora con e sulla morte medesima come il noir, la messa a morte soprattutto della struttura del noir con il suo canovaccio costruito archetipicamente sulla figura di un eroe, buono o cattivo che sia, la sua sacralizzazione, redenzione, dannazione attraverso un percorso destinale, quasi da feuilleton, o da bildungsroman (pagando ovviamente ingenti tributi al cinema che lo ha preceduto e con il quale ha intrattenuto inequivocabili rapporti di filiazione, Huston, Penn, e il Siegel di Il tesoro di Vera Cruz).
La morte dunque innanzitutto come principio di disgregazione a livello narrativo e narratologico poiché è vero che esiste un elemento diegetico forte, anzi fortissimo, come quello della ricerca che poi innesca nell’incidere del racconto un meccanismo fabulatorio incentrato sulla dinamica della vendetta (o in questo caso più vendette incrociate, spiralidee), ma è anche vero che questa narrazione viene ripetutamente e pertinacemente frantumata, disgregata, riamalgamata e rianagrammata con notevole progressiva sensazione di perdita di un centro, di un film letteralmente senza (più) capo (che invece rimane sempre lì, ma come capo mozzato dal resto del corpus filmico, la putrescente testa di Garcia). L’uso del ralenti stesso, assurto ormai a topica del linguaggio e dell’estetica peckinpahiane, lungi dall’essere dopo Il mucchio selvaggio e Getaway (e diversi altri) un altro vuoto barocchismo fuori tempo massimo, come molta critica (soprattutto del tempo) ha rilevato, cosa che a dire il vero in Peckinpah non è mai stata, mediante il quale si effettuava un’elegiaca sospensione della violenza in chiave ermeneutica (di esemplarità), contribuisce a rendere la sintassi filmica ulteriormente franta e discontinua, dilatandone i tempi, e dunque anche gli spazi, ma anche riducendoli poiché le astuzie del montaggio ce li presenta nel loro interrompersi, scambiarsi, trasfigurarsi senza seguire un continuum nell’azione e dunque nella compiutezza dell’azione come susseguirsi ininterrotto di immagini congruenti.
La disseminazione stessa all’interno della pellicola di immagini che rimandano alla morte (l’acme del disseppellimento del cadavere, un Messico quinlaniano lercio e mefitico, impastato di toni cromatici che dal pastello virano progressivamente all’oscuro), di significanti macabri o mortuari e che preannunciano o molto più semplicemente descrivono metaforicamente o meno la separazione tra vita e morte (eros e thanatos), tra Garcia e la figlia del Jefe, tra Garcia e la vita (la sua testa e il corpo, ancora una volta) tra Bennie e Elita, le numerose superfici speculari presenti nel film (le acque, gli specchi etc.) che rifrangono, come il cinema, immagini di corpi che non ci sono più, e dunque già morti (la sparatoria alla locanda seguita nel susseguirsi spezzettato di immagini speculari). Fino al raggiungimento del climax finale in cui l’immagine della pistola puntata contro lo spettatore, estremo simbolo di morte, ma anche prefigurazione fallica di nuovo cominciamento, di rinascita palingenetica che ci costringe a ritornare ad un incipit con la donna incinta e quindi gravido di conseguenze, che da una parte metonimizza il morire come disgregazione generale o collettiva (il finale penniano dell’automobile che ricorda Gangster Story) e dall’altra annuncia un riazzeramento con l’incavo vuoto della canna dell’arma per un nuovo inizio (cinematografico). To shoot, che significa contemporaneamente sparare e filmare.