Non si tratta di un western, come il poster potrebbe suggerire.
Ma del western ha in qualche modo la trama, e lo può ricordare anche visivamente; nel sertão brasiliano degli anni 60, dove si svolge la storia, il tempo sembra essersi fermato a più di 50 anni prima.
Non ci sono cowboy fuorilegge ma cangaceiros, e il protagonista, Antonio Das Mortes, ne è stato un celebre cacciatore e uccisore.
Ora torna, dopo più di vent’anni, a dare la caccia a quello che sembra l’ultimo cangaceiro rimasto.
Lo fa anche per ridare un senso alla sua vita, ma in realtà l’esperienza lo cambierà e lo porterà a schierarsi dalla parte dei poveri del villaggio e contro chi lo ha ingaggiato.
Se, come dicevo, la trama può aderire a canoni western, magari un western politico, politicizzato - con sprazzi anche di neorealismo - la dimensione più evidente della pellicola è il misticismo, con radici nell’immaginario e nel folklore del Brasile (soprattutto del nordest che ospita il sertão) e nel sincretismo religioso diffuso nel paese.
È un film che procede per allegorie, simbolismi; gli scontri, i duelli, le sparatorie, vengono messe in scena quasi come fossero delle pantomime – anche se si muore davvero.
Molto presente anche la musica, utilizzata come forma di comunicazione, come narrazione ma anche in funzione rituale, in maniera a volte ossessiva.
Il film - molto bello anche se non facile - cattura visivamente e a livello sonoro, e negli improvvisi momenti di silenzio, o di ritorno alla realtà, alla modernità, alla linearità, sembra di essersi svegliati da un sogno.
Premio per la regia al Festival di Cannes del 1969.