ecco qualcosa che potrebbe riaccendere discussioni già divampate ed estremizzarle allo stato degli incendi californiani
la querelle sul mostrabile in arte è una vexatissima quaestio che ha radici lontane e profonde quanto la nascita dell’arte stessa, e ciclicamente si nutre spesso e volentieri di papabili agnelli sacrificali, pescabili anche dal mazzo del fumetto e della fanzine: basta ripercorrere l’epopea degli EC comics (nel biopic, provvederà george romero a farlo) o ripensare ai casi nostrani della ACME e di miguel angel martin con psychopathia sexualis, o per quel che concerne le fanzines autoprodotte alle epopee giudiziarie di nobiluomini come peter sotos, john marr, full force frank e jim road.
mike diana è stato per il mondo del fumetto underground quel che de sade fu per la sfera letteraria: un criminale estetico, un martire del primo emendamento, un capro espiatorio ottimale della psicopolizia.
la solfa è sempre la stessa: guai a mostrare lo specchio a un mostro, ti accuserà di essere tu l’abominio riflesso. nella terra stellestrisce imbellettata di ipocrisia dove puoi comprare armi e psicofarmaci fin quanti ne vuoi al supermercato, nei primi anni 90 nacque un crimine indicibile che rianimò l’inquisizione: un ragazzo disegnò. peggio: disegnò male. peggissimo: disegnò tutto quello che non si doveva nemmeno lontanamente immaginare elevato 3.14. e fu così che mike diana — un timido e pacioso fanzinaro armato di penna, sangue, sperma e disperazione, ribollente e muriatico immaginario che ha il suo ideale equivalente in un braccio di ferro tra barker e gg allin (bite it, you scum:
introduce significativamente il biopic) tra crumb e il peggio del peggio del truecrime pedoporno - non fu solo condannato. fu esiliato dall’immaginazione (non è quella licenza poetica che sembra: l’allucinante sentenza gli intimò di non toccare mai più strumenti da disegno, caso unico nella storia dei comics americani). il suo processo è stato un’eresia al contrario: lo hanno bruciato perché ha osato disegnare l’inferno — non da dentro, ma da spettatore. e l’inferno ha riconosciuto sé stesso e non gliel’ha perdonata. quando la carta impregnata di incubi (mutanti deformi, stupri rituali, preti e padri pedofili, feti ipersessuati, cadaveri veicolati in tutte le forme e i modi che l’immaginazione consente e tutte le più o meno metaforiche bestie che la società borghese finge di non aver mai partorito) fa il suo giro, si parla ex abrupto di crimine. e per i moralisti dalla forca facile, è la grande festa ajazzone.
quando poi i numeri di angel fuck e boiled angels vengono reperiti nel caso dei crimini di gainsville. la florida processa a gamba tesa diana per aver disegnato l’orrore, mentre danny rolling lo praticava realmente, mescolando l’uno con l’altro e arrivando a insinuare che l’uno possa aver condizionato l’altro ad agire. o spacciandoli direttamente compagni di giochi.
alchimista dell’orrore grottesco, henenlotter si è ricordato che la realtà è ancora più mostruosa dei suoi film. di qualsiasi film per estremo e survoltato che sia. e non gli sfugge che la perorazione estetica di diana è appunto a) estetica e b) contrassegnata dall’umorismo. di un nero a prova di torce fondale e di più che pessimo gusto, d’accordo, ma cosa diceva un certo capote su arte e buon gusto? e c) la sua produzione non inventava nulla: si limitava a rigurgitare il marcio che la cultura americana tiene sotto il tappeto, a colpi di china e ferocia in una giostra del primo emendamento spinta troppo energeticamente che ha portato a una brutta caduta.
e per conseguenza decide di vendicarlo.
ne scaturisce una chiamata alle armi contro la censura, contro l’arte addomesticata, contro il falso moralismo che imbavaglia ogni forma di dissenso visivo. un’ode agli outsiders e ai reietti. un tirapugni silurato sull’arcata dentale di opinionismo perbenista e giudici benpensanti. un grido che ammonisce “non dimenticate mike diana. perché se lo dimenticate, sarete i prossimi” e si appella all’etica e alla logica domandando retoricamente se è più pericoloso l’artista o l’assassino, mostrando cosa accade quando la paura prende il posto della giustizia, unendo (soprattutto discernendo) tra true crime, controcultura e diritto alla libertà espressiva quale che sia; muovendo riflessioni sul confine tra arte e pornografia, tra provocazione e reato, tra la spiritualità deviata di un’america che si riempie la bocca con la parola libertà e poi tratta la fantasia come psicopatologia; dimostrando che non tutti i mostri disegnati sono finzione, alcuni li troviamo nei tribunali nelle chiese nelle scuole in famiglia e arricchendo di interviste e materiali d’archivio rari, dalle fanzine al processo, dirigendo il tutto con appassionato piglio militante, lasciando che la satira del sistema giudiziario e dell’opinionismo pubblico vada da sé senza neanche bisogno di pensarla.
in una sola parola: raccomandatissimo.
e naturalmente: astenersi schizzinosi.