Candyman (Nia DaCosta, 2021)

…ok, la costa è stata coraggiosa e generosa nel cimentarsi in un remake-reboot-recap così ingombrante e impegnativo. ce la mette tutta per rimpastare ricalibrare rigenerare: laddove rose partiva con una colorata e lenta carrellata aerea dall’alto (il male è metafisico, impalpabile, sovrastante, ultraterreno), lei sceglie di rovesciare la prospettiva con una vivace carrellata livida dei grattacieli dal basso (il male ha fondamenta legate al terreno-territorio-costruzione in cui nasce, ha semi umani, non nasce dal mostro, ma dal sistema sociale che lo ha generato, masticato, poi esorcizzato a colpi di documentari e gallerie d’arte contemporanea); è più adesa a de palma-jordan (vedi caso anche sceneggiatore) che a barker-rose, al freddo concetto sottotestuale che alle viscere.

come reboot non è malaccio, il vero problema filologico e fisiologico - lo era già per i numeri 2 e 3 - è che se si intendeva davvero dare un seguito alla vicenda per come questa finiva nel capostipite, andava intitolato candywoman e avere (come da ultimativo passaggio di consegne) la madsen quale incarnato del boogey uncinato (possibile che sia sfuggito a tutti che è helen a diventare la sua degna succedanea?), che invece qua viene tutt’al più vocalmente flashbackuppata nel più ovvio dei modi (stranamente la da costa non rispolvera la non proprio ininfluente figura di trevor, così come vengono bypassati i personaggi di clara e bernadette).

ne consegue che il film funziona molto bene come eastern eggs/injoke-generator per cultori ma floppa su tutto il resto, venendo meno i più stretti rapporti con quella metafisica mitopoiesi che si fa film per privilegiare la solita tiritera meta-testuale dell’artista che finisce conglobato dalla sua ossessione creativa che già ci scodellò anni prima the devil’s candy; l’eternità cui candyman ambiva nel capostipite la trova qui esclusivamente nella metafisica dell’arte (candyman era del resto un pittore e farlo risorgere nelle gallerie d’arte contemporanea quadra il cerchio dell’ereditarietà, raddoppiata dal fin troppo propedeutico protagonista: tony, come tony todd, il candyman primigenio, ma anche come l’anthony-baby rapito da helen ma anche cripticamente preparata nella più cool delle pensate (svelo l’arcano ai più “disattenti”: il prtagonista diventa candyman dopo che il suo nome di battesimo è ripetuto per la quinta volta nel corso del film)

resta caruccia sebbene tutt’altro che fresca di giornata cinematografica-teratologica la trovata delle vittime che possono scorgerne il solo riflesso, in fondo già allora il nostro aveva più di un punto in comune con la creatura di stoker: tutto il resto, dal valore metastorico del sangue quale ciclica fonte rigeneratrice ai discorsi sulla necessità del male quale propulsore storico-esistenziale passando per la valenza carrolliana dell’alicesco oltrepassamento dello specchio, il film se lo lascia alle spalle via via che la pellicola scorre, assieme a tutto quel romantico sehnsucht che faceva di candyman più una storia d’amore che d’orrore, un’opera che struggeva anziché inorridire o spaventare.

regista e sceneggiatore sembrano più interessati a svecchiarlo elevandone alla millesima il sottotesto politico, facendone un ipertesto (talvolta in antipatica zona “ah, non l’hai ancora capita? attento bene che te la rispiego” ) che si infischia quasi completamente delle peculiarità poetiche di barker e dell’estetica sublime di rose, ipertesto che paradossalmente emergeva con più prepotenza nell’originale proprio perché là era ambiguamente alluso e accennato, e più abilmente amalgamato col mito e la leggenda. qui la dacosta sembra inciampare nel timore di non essere capita e fa del film un pamphlet visivo di una lecture TEDx sui rapporti tra orrore e white storytelling che tenta di digerire l’orrore con le posate del folklore dimenticando che il cinema (tanto più quello horror) dovrebbe far sentire un’idea, non spiegarla come in una conferenza motivazionale.

se anthony da injoke diventa termine di ricongiungimento ed erede iconico, attorno a lui non mancano personaggi i cui nomi sembrano fungere sia da omaggio che da riferimento scavalcato - anche qui, non a caso, tutte vittime: clive è il nome del gallerista (ahah! e daje de stoccata biografica, per la serie forse non tutti sanno che barker oltre ad essere il papà del franchise è anche pittore - non stupirebbe scoprire che sono suoi i due baconiani quadri nella scena della lite tra anthony e la sua ragazza), la studentessa che evoca candyman in bagno con le amiche si chiama, ndovinanpo’, helen.

ciò detto, pur nel suo privilegiare il tema della gentrificazione e annessa nemesi autoindotta (le vittime di questo candyman sono tutte caucasiche), non è un film sbagliato. checché se ne possa inevitabilmente confrontare all’americana, l’idea del fondo di leggenda che allaga la quotidianità, diventandone letale metafora vivente, è ancora vincente, l’atmosfera acchiappa ugualmente (a tratti suggestionando anche parecchio), il piglio drammaturgico è più che centrato, le coreografie delittuose elegantissime e outsider nel loro elidere anziché esplicitare e se anche, diciamo così, il film tende a restare al di qua dello specchio, rimirandocisi vanesio (chi di queste nuove generazioni digiune di barker/rose, nonostante i mòttespiego e i compiaciuti occhiolini ammiccanti a suon di puppeting,comprenderà davvero di chi-cosa si sta parlando?) e non commuovendo mai, ha il pregio di evitare tutte le scorciatoie tipiche dell’horror degli ultimi 15 anni e di giocare la carta della densità e della verticalità e oltre a essere di chilometricissima lunga migliore dei due infelicissimi sequel (non che ci volesse chissà quanto), tutto sommato segna un punto a favore dei reboot, inutili nel 97% dei casi, sorprendenti nel per il residuo 3%, anche se di questo pur azzeccto 3 non se ne sentiva chissà quale bisogno. e d’accordo, le partiture di glass erano il 50% del film, ma nell’economia di questo recap, la neo ost non fa affatto una brutta figura e anzi la main theme traina e porta dentro il vortice il giusto.

ah, e a proposito di specchio, molto carine le presentazioni universal e mgm/ua specularmente rovesciate.

per me, pur senza stracciarmi le protettive vesti da apicoltore, promosso con riserve, promosso con riserve, promosso con riserve, promosso con riserve, promosso con riserve.

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