Inland Empire - L'impero della mente (David Lynch, 2006)

Beh, non credo che scervellarsi per trovare un filo logico giovi molto alla visione di questo film, lo stesso regista dichiara che certe cose non si possono spiegare, a tratti è pura immagine, crea un universo onirico. E per definirlo c’è chi usa gli aggettivi che hai scritto tu, c’è chi invece si lascia affascinare.
Sono curioso di sapere che ne pensi quando l’avrai visto.

Qui in in Belgio esce il 7/2, e lo stanno “pompando” discretamente.

Andrò a vederlo anche se esce solo al WARNER VILLAGE. Imperdibile.

Ora è ufficiale: in Italia esce nei cinema, con durata di 172 minuti circa, il 9 febbraio 2007. :smt039

cazzo mi ci vuole una sala che faccia anche l’intervallo e pure una sigaretta tra un tempo e l’altro.

Non ti preoccupare, che tanto lo passano al Settebello

Posto il bell’articolo di Paolo Mereghetti apparso oggi sul Corriere della Sera:

Lynch, cinema nel labirinto di un tradimento
L’ultimo lavoro del regista americano (tre ore) ha suscitato ironie e perplessità a Venezia, ma ha il fascino di un grande racconto

Con bella intuizione il film-maker Alberto Grifi definisce (su Lo straniero n. 78/79) l’artista come una specie di «uccellino chiuso in gabbia» costretto a far bella mostra di sé nei salotti. Come a dire che la libertà del vero artista finisce sempre per permettergli di intonare una canzone, ma senza dimenticare che quell’uccellino-artista spesso è rinchiuso dentro gabbie e salotti che con l’arte hanno poco o niente a che fare. Bisognerebbe ricordarsi un po’ di più dei condizionamenti delle gabbie-salotto, cioè del mercato e delle sue regole, quando si giudica un film, ma anche saper riconoscere la bellezza delle melodie che riescono a uscire da quelle «prigioni» e lasciarsi catturare dalla loro bellezza, senza voler a tutti i costi chiedere spiegazioni pedanti o banali.

Come è accaduto puntualmente all’ultimo festival di Venezia, dopo la proiezione di INLAND EMPIRE (tutto maiuscolo: si scrive così!), dove si è scatenata l’ironia collettiva contro le astrusità che David Lynch avrebbe messo in un film che osa durare tre ore. Ma se di un film non cogliamo alla prima visione tutti i nessi e le citazioni vuol dire, semmai, che siamo stati viziati (e intorpiditi) da un cinema-tappezzeria, perfetto per «arredare» il salotto ma non per stimolarci con novità e sorprese. Ho visto due volte INLAND EMPIRE e non saprei rispondere a tutte le domande che quel film solleva, a cominciare dal teatrino simil Lewis Carroll dove le persone hanno le teste di coniglio (forse un’autocitazione, visto che nel 2002 Lynch ha girato un mediometraggio che si intitolava Rabbits, conigli), ma l’impianto di base del film mi sembra limpido, mediamente più stimolante della stragrande maggioranza dei film che si producono oggi e che ricevono applausi un po’ troppo pilotati dal marketing.
La storia racconta l’odissea mentale e fisica dell’attrice Nikki Grace (Laura Dern, che vorremmo vedere più spesso al cinema) scelta dal regista Kinsley Stewart (Jeremy Irons) per interpretare la storia di una moglie il cui matrimonio entra in crisi per colpa di un incallito rubacuori. E guarda caso, l’attore maschile, Devon Berk (Justin Theroux), è proprio quello che si dice uno «sciupafemmine». Ma le coincidenze non finiscono qui, perché il film, che si intitola Il buio cielo del domani, è in realtà il remake di un film che non fu possibile terminare per la morte dei due protagonisti, uccisi per gelosia dal marito di lei. Bisogna aggiungere che il marito di Nikki è ossessivamente geloso e ha paura della fama di Devon? Ecco allora che la storia (cinematografica) di un tradimento e delle sue tragiche conseguenze si sfrangia e trascolora nelle visioni e negli incubi della stessa protagonista, la cui «vita reale» si confonde e si duplica prima nella recitazione e poi anche nel sogno.

L’idea forte che tiene unito tutto il film è questa: la convinzione che il cinema abbia un’influenza palpabile sulla vita delle persone. Ma invece di raccontare questo intreccio tra realtà e sogno usando la macchina da presa come occhio oggettivo esterno ai fatti e adeguandosi a scontati canoni narrativi - l’immagine che si sfuoca, il passaggio dal colore al bianco e nero, la voce fuori campo - Lynch costringe lo spettatore a entrare nell’anima della protagonista, secondo un approccio psicologico (se non addirittura psicoanalitico) che mette al primo posto la soggettività. Così quello che vediamo si confonde e si ingarbuglia, con simbologie a volte immediate e comprensibili, altre volte decisamente ostiche. Ma con un fascino e una forza visiva che pochi altri registi possono mettere in campo.

Per esempio: perché quelle scene in polacco (che Lynch ha autorizzato a sottotitolare per l’edizione italiana)? A rigor di logica perché l’origine del film interpretato da Nikki deriva da «una leggenda di zingari polacchi», ma è una spiegazione che convince poco. Piuttosto vien da pensare che il polacco (e quegli strani personaggi polacchi) servano al regista per trasmettere un’aria di mistero e di angoscia che altrimenti non avrebbe potuto ottenere. Allo stesso modo le scene con le prostitute, con gli homeless e i mendicanti, con l’agghiacciante fauna che si raduna intorno a un barbecue sono una specie di bagno dentro la concretezza, e la bruttezza, della realtà. In un film che sembra costruito solo intorno al mondo del cinema e dei suoi sogni doppi e tripli, la presenza di personaggi presi dal mondo quotidiano aiuta a ricordare che non si può ridurre tutto a quello che si vede sullo schermo e che la realtà esiste. E, come nel finale, fa anche più paura dei sogni.

Più di una volta Lynch ha dichiarato che «il bello di un film è che può raccontare un po’ di un certo aspetto delle cose che le parole non riescono a spiegare» e anche che nelle sue inquadrature ci dev’essere qualche zona scura perché «se tutto è completamente illuminato e si può vedere ogni cosa, allora non c’è mistero». INLAND EMPIRE è la programmatica messa in pratica di queste idee: non tutte le immagini sono semplici da decifrare, ma tutte finiscono per concorrere a creare quell’atmosfera di fondo capace di farci riflettere e di scavare dentro le nostre zone «buie». Che finiscono per diventare ancora più «misteriose» grazie all’uso di una cinepresa digitale, che permette a Lynch di muoversi in ambienti meno illuminati (cioè più ambigui) ma soprattutto che gli garantisce la possibilità di rompere la razionalità geometrica degli spazi, deformando gli ambienti e riducendo la distanza tradizionale tra obiettivo e persone riprese. Per usare ancora le parole di Lynch «la vita è molto, molto complicata e così anche ai film dovrebbe essere permesso di esserlo». Se per una volta un grande film riesce a raccontare in maniera non banale questa «complicazione», non mettiamo la testa sotto la sabbia: accettiamo la sfida e proviamo a misurarci con le sue idee.

Paolo Mereghetti

io andrò a vederlo stasera. più che il film temo chi mi accompagnerà…

Distribuito in 25 sale!! Roba da ridere.
Io lo recupero domenica, che stasera e domani non ci sono.

per fortuna una è a rimini!
quindi stai via tutto il weekend?

Purtoppo, oggi, il film non è ancora uscito nella mia città. :frowning:
Segnalo, per completezza, anche la positiva recensione di Roberto Nepoti (sul numero odierno de “la Repubblica”) che (unitamente a quella di Mereghetti su Corsera) mi danno elementi di conforto per cui (da appassionato, ultra ventennale e prossimo al trentennio, del Regista) mi accingo fiducioso alla visione del film (quando uscirà) avendone peraltro intuito (ci scommetterei) il tema di fondo (critiche all’universo apparentemente dorato del mondo del cinema di Holliwood, come già in Mulholland Drive, traendo spunto in commistioni realtà-finzioni cinematografiche e pulsioni oniriche dell’inconscio di un’attrice): reputo che tutto avrà un senso, e sono di nuovo pronto a scommetterci, e che ogni tassello tornerà al suo posto. :smt039

cazzarola. mi son ripreso solo adesso, e son passate 2 ore dalla fine…

ora per “compensare” mi guardo il ragazzo di campagna.
c’è chi per compensare pensa di guardarsi amici della de filippi.

Qualcun altro l’ha visto e sa darci notizie?:confused:

Io l’ho visto altre due volte, oltre a quella di Venezia. Le parole per me non servono, prendere o lasciare, questo è Lynch, dedicategli almeno una visione.

aspetta, io non sono un profondo conoscitore di Lynch, ma questo mi pare che sia Lynch all’ennesima potenza… non credo sia mai stato così “lynchano” come in questo film!

Beh, è Lynch dove è arrivato ora, partendo da Eraserhead e dai corti, dopo aver battuto diverse strade, sta ritornando al surrealismo (non che l’abbia mai abbandonato) dei suoi esordi, filtrato da anni di esperienze delle più disparate

ma secondo te ha preso la via del non ritorno oppure questo è stato un apice di delirio? a me sembra che abbia calcato un po’ la mano qui… ti dico, mulholland drive a confronto secondo me è proprio una passeggiata.

Secondo me non ritorna più, si è creato un suo mondo, e credo ormai abbia prso questa tangente. Non sò, almeno che abbia bisogno di far cassa per finanziare i suoi deliri e magari accetti di fare un film un pò più vendibile, tipo Una storia vera. Per me il suo sogno è di fare un serial tv, ma non credo che nessuno abbia il coraggio di produrglielo

Rispetto a “Mullollhand drive”, peraltro splendido ed in cui ogni tassello alla fine torna al punto giusto, si riesce a ricostruire il tutto?:shock:

no… poi magari sotto LSD riuslta tutto chiaro…

mulholland sta a inland come la solitudine della pausini sta ad un opera dodecafonica di schoenberg…

:-p forse ho esagerato…

Ma siete sicuri che si ricostruisce tutto in Mullholland drive? E siete sicuri che per forza in questo film di debba trovare una ricostruzione rasionale?