Le isole dell'amore (Pino De Martino, 1970)

Unica regia di De Martino, che già l’anno precedente si era dedicato al genere mondo producendo e scrivendo Inghilterra nuda.

Il film è interamente incentrato sulla Polinesia, della quale cerca di rappresentare sì le contraddizioni, ma soprattutto lo stile di vita delle popolazioni locali, ancora largamente legato alla cultura tradizionale, incentrato sulla libertà e il contatto con la natura. Una tradizione nella quale grande importanza ha il sesso, vissuto in modo spontaneo e libero da pregiudizi e fantasmi, una cultura nella quale spontaneità e semplicità ancora la fanno da padrone.

Pur non mancando eccessi lirici, forzature e sequenze ricostruite, il film risulta piuttosto onesto e genuino, mostrando in modo tangibile e concreto molti aspetti della vita delle popolazioni prese in esame.
Mi sembra che le nudità muliebri mostrate siano decisamente sopra alla media delle produzioni coeve, per la gioia del complessato spettatore occidentale dell’epoca, che a differenza degli indigeni vive il sesso come un tabù.

Diverse sono le sequenze interessanti che mi hanno colpito, tra cui ad esempio quella dedicata al cacciatore di squali, amputato dell’intero braccio a causa dell’incontro con un pescecane avvenuto in giovane età, che passa la sua vita a sterminare i pericolosi animali (catturandoli con tecniche dannatamente simili a quelle utilizzate da Franco Nero nel film di Castellari), uccidendoli a suon di martellate sulla testa e sul muso per vendicare il torto subìto.

Il commento è piuttosto sobrio ed equilibrato, solo in qualche occasione si concede un po’ di sfottò politicamente scorretto: è il caso delle danzatrici obese o dei poveri hippies (uno dei bersagli sui quali tutti i mondo movies concordano nello sparare a zero, dipingendoli inesorabilmente come degli inetti bamboccioni privi di acume, iniziativa e amor proprio).

In diversi momenti durante la visione verrebbe voglia di mollare tutto e partir seduta stante per la Polinesia. Però… c’è sempre un però.

Il film non ha remore nel mostrare anche gli aspetti violenti e spietati di quella società: in particolare ci sono alcune delle scene di violenza su animali più insostenibili che io abbia mai visto.
A metà pellicola assistiamo all’uccisione di una tartaruga di mare che è talmente brutale da far sembrare robetta da educande la tanto discussa sequenza similare contenuta in Cannibal Holocaust. In questo caso la povera bestia, appena catturata, viene portata a riva ed aperta col machete prima di essere uccisa (il pretesto è quello che, già poco tempo dopo la sua morte, le carni iniziano a riempirsi di tossine e diventano indigeste, per cui va lavorata “fresca”); dopo averla sconocchiata i pescatori iniziano ad estrarne gli organi interni, affondando con le braccia nelle sue viscere fin oltre il gomito, mentre il povero animale, coricato sul dorso, si dimena ancora vivo in preda a tremenda agonia.
Insostenibile.

Nella sequenza conclusiva assistiamo invece ad un banchetto a base di cani, che vengono affogati gettandoli in mare legati ad una pietra e poi recuperati e, con l’aiuto di un affilato coltellaccio, amputati degli arti e decapitati, prima di essere messi a cuocere sulle braci.

Penso che sia il mondo movie che osa di più nel mostrare queste caratteristiche culinarie così avulse dalla nostra cultura. Ne avrei fatto volentieri a meno, questa chiusura shock mi ha inficiato la visione, rendendomi difficile ricordare tutti gli stimoli belli ed interessanti visti precedentemente.

Una cultura tanto solare quanto brutale. Polinesia dolce e selvaggia.

7 Mi Piace

Aggiungo solo - perchè de più nin zò del film - che c’ha una favolosa colonna sonora di Piero Umiliani

2 Mi Piace