Qui potrei scrivere 10 cartelle piene zeppe di considerazioni sull’interessantissimo off-topic che sta prendendo piede qui.
Tranquillizzatevi comunque, è Natale, io sono più buono che mai e l’argomento è di quelli che mi tolgono la voglia di pandoro di dosso.
Quindi solo due paroline.
La differenza avvertita da me, come spettatore, fra gli hard dei settanta (ancor più di quelli “ottantoni”) e quelle produzioni che avete nominato, non è poca.
Gli hard dei settanta sono tuttora insuperati per fantasia messa in scena, messa in scena stessa, interpretazione degli interpreti.
E’ sì incontestabile che la sensibilità dello spettatore sia la sua e non quella del critico, ma provate a guardarvi -in piena serenità con voi stessi - una produzione amerlocca con gente del calibro di Jamie Gillis, Gloria Leonard, Eric Edwards e la semi-leggendaria “Long Jeanne Silver” (la tizia di cui parla Tuchulcha).
Se i settantoni lasciano ancora oggi di stucco (eccome!) mentre quei manifesti di bassissima macelleria targati 90 intristiscono l’animo, questo lo si deve sostanzialmente alla mancanza di affabulazione e alla veridicità dell’interpretazione, cosette che i “registi” dell’estremo “recenti” hanno completamente dimenticato a casa. E senza giustificazione.
Con “affabulazione” intendo quel feeling, quel passaggio di emozioni che si crea mediante i contenuti raccontati. La consapevolezza della favola, appunto, che si dovrebbe stabilire fra il “narratore” e il “lettore”.
Pure il buon Aristide, nel pieno della sua genuinità e semplicità, rammentava l’importanza dell’“entrare nel personaggio”.
A mostrare “ingrandimenti” della realtà, a spostare lenti focali e a tingere il rosso SON CAPACI TUTTI.
E’ così che una schiera di scimuniti, armati di Sony-handycam e di “supponenze scioccanti”, s’è messa nella zucca di fare “film estremi”.
Filmare “da vicino” liquidi organici, squartamenti, “innaturalità” varie ed assortite non è per nulla metter su una “favola” - e quindi un film - ma semplicemente voler dare un’intenzione diversa alle centinaia di filmati di medicina scientifica che già giravano da decenni per le università.
Pure l’estremo ha bisogno di poesia e misura, anzi ne ha più bisogno del resto.
La “quantità”, libera di autogestirsi e senza nessuna presa di coscienza della “qualità”, porta solo all’inutile o a certe divagazioni matematiche sul “caos” o sull’entropia.
Ma li avete visti quei “filmati” artistici di quel signore?
Una serie di comparse - persone raccattate per strada, per nulla in cerca d’autore ma solo del soldo - un bosco, dei pingoni di gomma, pali o altri oggetti enormi, qualche mascherina che non fa per nulla Venezia di Roiter, “mosse” senza senso, “ingurgitamenti” senza senso, tristezza a fiumi.
La tristezza è data dal fatto che, sebbene la “finzione” sia del tutto palpabile, manca del tutto la presa di coscienza della storia.
Ci sono questi tizi, senza il minimo interessamento in ciò che fanno, in un contesto bizzarro e del tutto “staccato” dai personaggi stessi, dediti a faccende ancor più “estranee” da qualsivoglia logica narrativa.
In un immenso slancio di bontà (invero solo di scemenza) potrei pure pensare ad alcune attinenze con la logica delle “installazioni”. Quelle creazioni artistiche che ricercano il loro senso nel rapporto fra l’oggetto e lo spazio in cui è posto l’oggetto stesso.
Ma alla fine, purtroppo, cedo al credo di un misero prodotto mosso esclusivamente dalle più misere intenzioni da porno-shop dei giorni nostri: occupare un angolino di prestigio fra tanta roba apparentemente poco variegata. Sfruttando l’ignoranza (forse) degli abitué di quegli spacci.
Ho finito, ora me ne torno al mio pandoro di bianca polvere ricoperto!