May We Chat (Philip Yung, 2014)

Ho appena ordinato da buyoyo il bluray di questo film che vidi anni fa in sala ad Udine e mi piacque un sacco. Nello stesso ordine anche il bluray di Lonely Fifteen, film scandalo degli anni ottanta a cui questo May We Chat è dichiaratamente ispirato.
Non vedo l’ora di rivederlo, per sapere se la buona impressione che mi fece allora è riconfermata o meno.

Nel mentre vi lascio la recensione che scrissi all’epoca per una testata web:

Opera seconda di un regista che sa rivolgere uno sguardo fresco, affettuoso e al tempo stesso critico verso le nuove generazioni. Con un linguaggio dinamico ed innovativo Philip Yung ci regala un affresco complesso ed affascinante della smartphone generation, dipingendo i ritratti di tre ragazze adolescenti alle prese con la propria quotidianità. Nella prima mezz’ora il film segue freneticamente il complesso intreccio relazionale in cui le protagoniste sono coinvolte, mostrando stralci di conversazioni via chat e frammenti della loro esperienza di vita. In questo modo si delinea l’atmosfera, il contesto, la dimensione sospesa in cui le nuove generazioni di HK fluttuano senza meta. Legati al cellulare come un malato terminale al suo polmone d’acciaio: lo smartphone è lo strumento principale (a volte l’unico) attraverso il quale sono in grado di comunicare ed esprimere i propri sentimenti, non se ne separano nemmeno per cagare o per dormire. La loro vera vita viaggia su binari telematici; l’esperienza concreta all’interno del contesto sociale è per loro marginale, spesso incomprensibile o vacua. Le protagoniste del film sono incapaci di amare e provare affetto, di concepire il sesso senza un pagamento in cambio, cercano incontri con partners occasionali attraverso WeChat (un WhatsApp orientale) e faticano a relazionarsi ed approcciarsi diversamente coi coetanei; non sono in grado di stabilire rapporti col mondo degli adulti, che non può comprenderle, e sono prive di di un sistema valoriale che consenta loro di fare scelte o di avere un proprio personale metro di giudizio per distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Come tutte le adolescenti borderline del cinema mondiale inoltre si drogano, si ubriacano, frequentano teppisti e via dicendo. Fin qui la trama è al servizio del contesto e il film esprime alti livelli di cinema e si eleva ben sopra la media del filone giovanilistico hongkonghese. Di punto in bianco però la pellicola cambia registro: come si sa gli hongkonghesi sono schiavi della narrazione e dell’action e anche in questo caso non riescono a farne a meno. Si comincia a concentrarsi sulla vicenda di una delle tre ragazze, che scompare misteriosamente senza lasciare tracce, e sulla affannosa ricerca delle sue amiche che per ritrovarla finiscono coinvolte in un losco giro di droga e prostituzione. Il film resta comunque gradevole, ma è tutt’altra cosa rispetto a quanto mostrato in precedenza: a livello visivo è piuttosto crudo, con molte concessioni alla nudità (sia femminile che maschile) e qualche spruzzatina di sangue, che gli valgono un CAT III come visto censura. In definitiva, un lavoro low budget particolare che si costruisce attraverso un linguaggio innovativo, quasi sperimentale: resterà sicuramente un film di nicchia ma merita una visione per la potenza visiva ed emotiva attraverso cui riesce a raccontare questa ennesima “doom generation”.

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