Toccante storia di una bambina sordo-cieca nella Turchia del secondo dopoguerra. La bambina cresce selvaggia senza che i genitori, una famiglia aristocratica, riescano minimamente ad educarla ed a creare un canale comunicativo. Persa nell’oscurità e nella solitudine della sua anima, spacca tutto quello che le capita sotto tiro ed è preda di tremende crisi isteriche ed esplosioni di rabbia; crescendo diventa sempre meno gestibile. Sta finire rinchiusa in un manicomio quando, miracolosamente, la famiglia incappa in un insegnante specializzato, che però ha perso fiducia nella vita dopo la morte della sorella e si è dato alla bottiglia. La nuova sfida permetterà all’insegnante di avere una nuova ragione di vita e rimettersi in sesto. Grazie al suo aiuto la bambina sarà in grado finalmente di capire cosa succede attorno a lei, di entrare in contatto col mondo e di affrontare con determinazione le sfide che la vita le propone, puntando sempre più in alto ed arrivando a frequentare l’università, prima studentessa in assoluto in Turchia ad essere ammessa nonostante un handicap fisico di questo tipo.
È un’opera ben fatta ed efficace, uno di quei film in cui è la storia quello che conta, e tutto il resto è al suo servizio, creando un forte coinvolgimento emotivo in chi guarda.
Mi ha fatto sorridere vedere com’era concepita l’educazione nella Turchia degli anni '50, tutti gli schiaffoni che volavano e gli strapazzamenti fisici anche brutali impartiti a fin di bene. Mi ha ricordato la durissima sgridata e lo sberlone violento mollato sul da Yilmaz Güney al ragazzino protagonista di Duvar, quando non riusciva a concentrarsi per entrare nella parte (come visto nel documentario sul regista che recensii qualche anno fa).
Un film davvero toccante, complementare all’altrettanto bel documentario di Herzog Paese del silenzio e dell’oscurità, che analizza lo stesso handicap da un punto di vista totalmente diverso ma in maniera egualmente efficace e potente.