Anno FRA-USA 2001 Regia David Lynch Cast Naomi Watts, Laura Herring, Robert Forster, Justin Theroux
Il noir onirico e surreale del maestro David Lynch
Los Angeles, California: Rita (Laura Herring) ha perso la memoria in seguito ad un violento incidente stradale. Betty Elms (Naomi Watts) è un aspirante attrice che l’aiuterà a ricostruire il suo passato.
Scopriranno che nulla è come sembra, nella città dei sogni…
Edizione Universal Special Edition 2 DVD
Audio ITA DD 5.1 e DTS , ENG DD 5.1 Sottotitoli ITA - ENG Video 1.85.1 16/9 Durata 2h20m34s ExtraDVD 1 Premiazione Cannes 2001 (3min), B-Roll (6min), intervista a David Lynch,Naomi Watts,Laura Harring,Justin Theroux (3min+4min+2min+2min) DVD 2 Fotogallery, Trailer cinematografico, “Sulla strada di Mulholland Drive” (24min), “Mary Sweeney e Angelo Badalamenti raccontano” (6min+17min)
Ricordo bene questa particolarità davvero folle… un po’ come se un regista obbligasse chi compra un dvd di un suo film a guardarlo al buio e senza distrazioni. Assurdo, chi ha quella concezione alta del cinema lo fa già di suo, con la divisione in capitoli o meno… bah.
Comunque del film a distanza di anni ricordo soltanto una scena lesbo notevolissima…
hai ragione il dvd è marcato Universal, è scritto in piccolissimo e credevo fosse della 01 che lo aveva distribuito al cinema, comunque anche il br ha la scena lesbo tagliata e nel rimanente oscurata ?
Allo stesso modo alcuni artisti su iTunes non ti permettono di comprare solo certe canzoni di un album ma solo l’album nella sua integralità. Concordo con loro.
Posto qui un saggio di Francesco Patrizi che trovai in rete all’epoca dell’uscita del film, molto esplicativo riguardo al film e alla sua filosofia.
Ovviamente: SPOILERS BEWARE!!!
Breve saggio su “MULHOLLAND DRIVE” di David Lynch
di Francesco Patrizi
DAL PILOT AL FILM: COSTRUIRE STORIE
Affrontare “Mulholland Drive” di David Lynch non è un’operazione facile; paradossalmente, il film è limpido e diretto nel suo gioco, ma per entrare nel gioco è necessario conoscere le regole, è indispensabile porsi nell’ottica di uno spettatore-sceneggiatore la cui identità, la cui capacità di porsi di fronte al film come “scatola aperta”, implica una riflessione sulla fine del cinema.
Lynch ha realizzato diverse storie ad intreccio, ognuna delle quali prevedeva uno svolgimento a sé, coerente e narrativamente concluso, ed le ha presentate come prima puntata, come “pilot”, per uno sceneggiato televisivo. I personaggi e le situazioni del film nascono, in origine, come incipit di storie per un progetto seriale. Il progetto non è andato in porto e una produzione francese ha offerto a Lynch i finanziamenti per ricavare dal pilot un film.
Lynch e il suo sceneggiatore si sono trovati di fronte diverse storie per forza di cose irrisolte (dato che il pilot presenta solo l’inizio delle vicende): cosa fare, concluderne alcune e scartarle altre, intrecciarle tra loro, dare compiutezza ad una storia principale e lasciarne altre due o tre come subplot?
La strada è presa è stata un’altra, completamente diversa: realizzare un’opera “sulla sceneggiatura e sulla fruizione dello spettatore”.
Ognuna delle storie presentate nel film, quella delle due ragazze, quella del ragazzo che ha sognato una scena in un fast food, quella del regista ricattato dai produttori… è solo l’incipit, quell’incipit da cui ogni sceneggiatore deve partire per inventare una storia.
In una celebre scena di “Last Tycoon” (“Gli ultimi fuochi”) di Elia Kazan, il produttore De Niro raccontava a due sprovveduti sceneggiatori l’inizio di una storia: una donna entra nella stanza, posa sul tavolo una monetina, si toglie i guanti e corre a bruciare delle carte in una stufa a legna, solo allora alza lo sguardo e si accorge che, seduto di fronte a lei, c’è un uomo che la sta osservando.
Chi è la donna? Chi è l’uomo? Cosa sta bruciando la donna, cosa è successo? Perché quella monetina?
Gli sceneggiatori lo chiedono a De Niro e lui risponde “non lo so, siete voi che dovete dirmelo”.
L’importante è creare l’interesse per la storia, farla partire, creare suggestioni, riempire quella “scatola” di personaggi e vicende e trovare un filo, una “chiave”, una spiegazione perché tutto torni.
UN FILM WORK IN PROGRESS
Così nascono le storie di “Mulholland Drive”: una ragazza, che chiameremo per convenzione Rita (dice lo sceneggiatore quando lavora alla scrittura, ma dice anche il personaggio di se stesso) si salva da un incidente, arriva in una casa, si sente in pericolo, ha perso la memoria ed ha con sé una borsa con migliaia di dollari e una chiave blu.
Chi è la donna? Dove ha preso il denaro? Cosa apre quella chiave?
L’immaginazione dello spettatore si mette in moto.
Rita è un personaggio tabula rasa, in progress, su di lei bisogna costruire la storia, alla maniera del gioco di “Last Tycoon”. È il personaggio nudo e spoglio: infatti si presenta all’altro personaggio, la bionda Betty, nuda, attraverso il vetro opaco della doccia - Rita dall’identità indefinita, personaggio sfocata costruito di semplici sensazioni.
Quale rapporto si instaurerà con Betty, come cambieranno l’una la vita dell’altra?
Tutte le domande sull’identità e il passato del personaggio sono senza risposta. Ma qui subentra il gioco del film: facciamo un salto non logico nella storia, cominciamo a lavorare insieme, da una parte il regista/film, dall’altra lo spettatore/sceneggiatore: facciamo che le due donne del plot principale, una bionda solare e positiva e una bruna misteriosa e negativa (quindi due polarità opposte, il bianco e il nero, l’ossatura di ogni storia!) si scambino di ruolo, anzi d’identità. Facciamo che sia la bionda quella cupa e depressa, e la mora quella positiva. Facciamo che la combinazione del bianco e del nero, all’inizio della storia porti a prevalere il bianco, poi il nero.
Cosa accade? Il film non lo dice, offre degli spunti per immaginare tutte le possibili conseguenze, ma le vincola (perché i giochi hanno bisogno di regole) ad un passaggio obbligato: ad un certo punto, ogni storia sfocia in una conseguenza improbabile: ad esempio, il ragazzo racconta un sogno, esce dal fast food, gira l’angolo, vede una specie di mostro e muore d’infarto - poi vediamo il ragazzo di nuovo vivo nella stessa situazione del sogno che ha raccontato prima; si trova quindi nel suo sogno? Stiamo assistendo ad un sogno? (gioco di scatole cinesi alla Buñuel).
Lo spettatore/sceneggiatore può immaginare tutti gli sviluppi possibili tenendo presente che dovrà giustificare “quel” passaggio improbabile e illogico.
Lynch non fa altro che mostrare il lavoro sui personaggi, il lavoro che fanno tutti gli sceneggiatori durante la fase di scrittura “brain storming”: rimescola tutte le carte e mostra il gioco, ovvero il “work in progress”. Ecco perché scambia le due donne di identità, porta le loro storie personali in direzioni opposte; se prima era la bionda a voler fare l’attrice, adesso è la mora (e forse la bionda potrebbe lavorare in un fast food - ecco il “cartellino” con scritto “Betty” appuntato alla cameriera in una scena del film).
Ogni scena, ogni sequenza, mostra un metodo, uno stile, un approccio possibile, un incipit.
Ad esempio: un uomo parla con un amico in un ufficio, d’un tratto gli spara per impossessarsi di un libro (perché? A noi immaginarlo!), ma gli parte un altro colpo che ferisce una donna nell’altra stanza, allora va di là e la uccide, ma viene visto da un inserviente, allora uccide anche lui e spara all’aspirapolvere, ma crea un corto circuito che fa scattare l’allarme nel palazzo… non gli resta che uscire dalla finestra (uscire dalla situazione entrata in “corto circuito narrativo”); si tratta solo di un incipit “alla Tarantino”, basato sull’effetto a catena (vi ricordate “Hollywood party”, altra sceneggiatura costruita sull’effetto a catena…)
Oppure, ad un regista vogliono imporre un’attrice; si trova ad una riunione e uno dei due produttori rivali chiede un caffè e un tovagliolo, cosa dovrà farci? Beve il caffè e lo risputa meticolosamente sul tovagliolo dicendo “fa schifo” e adirandosi in maniera eccessiva: la situazione, da una stasi che prelude ad un’esplosione, degenera seguendo la via più inaspettata; ecco cos’è indispensabile ad un film, un’idea “buona”, che sorprenda lo spettatore.
Da qui, lo sceneggiatore deve partire per costruire (anche a ritroso) la storia. Ad esempio, lo spunto è che tra i produttori è in corso una vecchia storia sul caffè fatto bene, metafora dell’affare buono, ma anche sgarbo mafioso…
UNA SCATOLA, UNA CHIAVE
COS’E’ IL CINEMA OGGI E COSA NON E’ PIU’
Il film è interamente costruito sul gioco metalinguisitico. L’argomento, il campo di applicazione, è il cinema. l’ambientazione è Hollywood, i personaggi sono registi, produttori, attori e aspiranti tali. Ma, apparentemente, non si parla mai di cinema. Il discorso non può essere messo in bocca ai personaggi, perché essi sono le pedine del gioco. Il discorso aleggia al di sopra, per questo è difficile, per lo spettatore medio, coglierlo. Bisogna porsi nell’ottica dello sceneggiatore.
Il film, potremmo dire, ha un approccio prevalentemente brechtiano, si rivolge al pubblico informandolo e rendendolo partecipe della finzione dell’arte e dei suoi meccanismi di affezione.
Una sequenza, in particolare, condensa il senso del film: Rita si sveglia di notte “richiamata” da un frase in spagnolo “no y banda”. Betty la accompagna, nel cuore della notte, in un teatro e scopriamo che la frase è l’incipit (di nuovo un incipit) di uno spettacolo. Un uomo, davanti ad un microfono (metafora della messa in scena, della rappresentazione), tiene un discorso sulla finzione, un discorso auto-referenziale sul film stesso: non c’è nessuna banda, gli strumenti suonano, ma sono in playback. La metafora si apre a mille interpretazioni sulla natura dell’arte, ma si focalizza su una strada in particolare: esce una cantante ed intona una melodia struggente; Rita e Betty si commuovono, la cantante sviene e si scopre che si esibiva in playback (la trovata del playback ricorre anche quando vediamo i provini del film che sta girando il regista giovane). Le due ragazze restano deluse e si asciugano le lacrime, come se fossero state risvegliate da un sogno.
La canzone, playback o non playback, è sempre la stessa. L’esecuzione resta tale, cambia solo il contingente… perché le ragazze si “riprendono” dalla commozione? Perché hanno “scoperto” una finzione! Lì cessa la loro mimesi.
Ecco il discorso “brechtiano” del film: anche se non fosse stato un playback, l’arte è comunque illusione e non verità; ma scoprire che è finzione crea un shock. Lo spettatore di “Mulholland Drive”, attraverso le due ragazze, riflette sulla condizione della fruizione cinematografica.
Una fruizione che implica un regresso infantile, un credere incondizionato, acritico, simile ad uno stato onirico. Il “nuovo fruitore” auspicato da Lynch è quello già formato in letteratura da Joyce e già “svegliato” da Brecht. Colui che ha la coscienza critica della condizione in cui si trova.
Il discorso trae linfa dal dibattito novecentesco “sull’impossibilità di raccontare una storia”, sulla fine dell’arte come mimesi, sulla morte della catarsi e così via.
Il cinema è entrato nel vivo del dibattito adottando approcci diversi: Fellini con “8 e1/2” rifletteva sul cinema come creazione esclusiva dell’immaginario, come luogo antagonista della letteratura; Godard apre il discorso metalinguistico all’ideologia.
Il film di Lych si circoscrive unicamente alla fruizione dello spettatore, senza ricercarne le dinamiche nel campo della psicanalisi o della sociologia.
“Mulholland Drive” delimita un campo netto, senza derivazioni extratestuali.
Tornando alla sequenza del teatro, Rita e Betty, nel momento in cui sono “risvegliate” all’illusione dell’arte, trovano una “scatola”, che potranno aprire, finalmente, con la chiave che, all’inizio del film, avevamo visto nella borsa di Rita.
Sono i simboli chiari del gioco: la scatola è il “contenitore” di storie, il film stesso, le idee, le tracce, i personaggi, gli spunti… la “forma”; e la scatola va “aperta” per creare il film.
La chiave, simbolicamente, è anche la “decifrazione”, la messa in ordine del caotico magma di storie che è “Mulholland Drive”. Ma alla fine, non abbiamo nessuna “messa in ordine”: ed è giusto così, perché abbiamo assistito ad un work in progress, al magma creativo primordiale, il gioco è stato presentato, gli spunti offerti, le regole dettate. Concludere anche solo una di quelle storie vuol dire “giocare”, ma questo spetta allo spettatore!
Così come spetta al lettore ricostruire, se ci riesce, al giornata del signor Bloom nell’Ulysses di Joyce, così come spetta al pubblico de “L’Anima buona del Sezuan” di Brecht accettare coscientemente di credere a quella messa in scena “smascherata” e a quella storia improbabile per vederci, tra le righe, un discorso metaforico sulla politica e la società.
“Mulholland Drive” mette in scena solo una metodologia e cuce intorno un discorso sul potere di suggestione dei mezzi propri del cinema: quando Betty entra nella casa della zia, il travelling la precede e crea tensione: non è la storia è creare suspense, ma il movimento di macchina.
Quando Betty, alla fine del film, arriva alla cena del regista (attraverso una “scorciatoia”, chiaramente allusiva in termini di scrittura drammatica, dal momento che - a mo’ di facile scorciatoia - lì Lynch mette in fila tutti i personaggi svelandone l’identità ed i rapporti, come si fa alla conclusione di ogni film classico… ad esempio il regista svela il ruolo di Cocò “ti presento mia madre”), la scena della cena, tornando al nostro discorso, si apre con uno sfocato poi messo a fuoco: è una soggettiva di Betty drogata, allucinata, o che sogna? Anche qui non è la storia a dircelo, ma l’obiettivo. Una derivazione possibile del fatto che sia sotto effetto di allucinogeni, porterebbe la storia al suicidio di lei, inseguita dalle sue visioni.
In altre sequenze è la musica ad “offrire” un’interpretazione che non c’è, e che non sarà giustificata!
Lynch mostra, abilmente, i trucchi del mestiere. Ma evita i toni didattici di un Brecht, evita le virate extra linguisitiche di un Godard. Parla di cinema con il cinema.
Lynch ci mostra Betty recitare la scena del provino con Rita (prima in primo piano, poi travelling all’indietro a scoprire la “finzione”). La scena è aggressiva, il personaggio che dovrà interpretare Betty si ribella ad una viscida seduzione. E soprattutto la scena “è scritta male”, dice Betty, quindi Lynch si esercita sulle varianti, come “Esercizi di stile” di Queneau, che ripropongono una stessa vicenda raccontata in venti modi diversi, in venti stili differenti.
Infatti, quando invece c’è il provino, Betty dà un’interpretazione opposta: ammaliante, arrendevole, sensuale, tanto che si mette da sola la mano dell’attore, vecchio e rugoso, su una natica e si fa palpeggiare. Dov’è la verità? Betty è disposta a tutto pur di ottenere la parte? O Lynch ci ha mostrato le possibili versioni di una stessa scena (come farà per quasi tutto il film)?
È la forma a dettare legge!
LA MORTE DEL CINEMA?
Allo spettatore, al “nuovo spettatore”, spetta farsi sceneggiatore e regista. Ha l’incipit di una storia e deve concluderla passando per una conseguenza impossibile della vicenda.
Una storia ha un andamento misterioso (deciso dalla musica), un’altra comico (il montaggio a catena), un’altra ancora poliziesco, un’altra forse è un sogno o un’allucinazione.
Per inciso: dalla scatola escono dei piccoli personaggi in miniatura, si infilano sotto la porta di Betty e la perseguitano fino al suicidio.
Chi sono? Da dove provengono?
C’è un personaggio misterioso, una specie di strega, che ha in mano la scatola e la cui visione, all’inizio del film, provoca al ragazzo un infarto; è semplicemente una raffigurazione “fantastica”, come nella tradizione popolare, di “colui che muove i fili” -ecco perché ha la scatola! - ovvero, dell’artefice. L’artefice/sceneggiatore/regista che il personaggio, per forza di cosa, non può incontrare!!
Il ragazzo veggente lo ha visto in sogno e lo incontra, ma va in tilt: il creato che vede il creatore è impossibile, perché implicherebbe il riconoscimento, da parte del personaggio, del suo statuto di creatura di fantasia. Il creatore deve apparire nell’opera, scriveva Flaubert “onnipotente e invisibile come Dio”.
I piccoli personaggi che escono dalla scatola sono semplicemente la “soluzione” della storia di Betty, soluzione da sviluppare (cosa rappresentano? Chi sono? Li vediamo arrivare all’aeroporto e Betty saluta la vecchina canuta all’inizio del film…).
La morte del cinema è questa: non è più illusione, ma non è, come in teatro, illusione da svelare scoprendo i macchinari in scena. Lo smascheramento sta nel mettere a nudo la costruzione della storia, tanto da porre in mostra solo l’ossatura, la metodologia (un po’ come il “nouveau roman” degli anni sessanta, o anche come "L’anno scorso a Marienbad"di Resnais e Robbe-Grillet).
Ma come si potrà continuare a raccontare una storia con questi presupposti?
La narrazione classica è stata destrutturata e fatta a pezzi da quasi mezzo secolo sia in teatro che in letteratura. Adesso tocca al cinema mettersi alla pari.
Ma il cinema si regge sulla narrazione classica lineare, chiusa, dove tutto torna (per questo in “Mulholland Drive” tutto torna, ma è… sbagliato!). Se il lettore del Novecento è maturo ed ha sviluppato una coscienza critica; quando diventa spettatore di cinema, regredisce alla fruizione della narrazione favolistica, regredisce ad un’attenzione infantile.
È forse il cinema un’arte che si rivolge alla psiche infantile che è in noi?
Questo escluderebbe il cinema dall’essere “strumento di coscienza” e lo confinerebbe al compito di arte di intrattenimento, quindi non un’arte progressista, ma di conservazione.
Se l’arte progredisce e si sviluppa verso una coscienza critica dello spettatore, il cinema ne esce condannato a morte?
Uno dei più bei film di Lynch da sempre che, non per niente e sia pure ad ex aequo, ha vinto un palma d’oro a Cannes.
Possiedo molte edizioni homevideo, di questo splendido film, e varie monografie.
Mi pregio, peraltro, di segnalare l’ottimo bluray edito (alcuni mesi fa) da Universal in cui il massimo splendore audiovisivo possibile è stato raggiunto (tra l’altro con una confezione in digibook, con un’interessante booklet) di cui riporto (integralmente) una recensione che feci in un altro forum: "Ripresomi dalle grandi emozioni che mi hanno donato, é proprio il caso di dire all’unisono, sia il film che l’ottimo trasferimento in bd: mi accingo all’analisi, più dettagliata, del supporto oggetto del topic.
Video: esemplare, mantenendo tutte le caratteristiche proprie del girato, è davvero una delizia per gli occhi per nitidezza d’immagini (pochissime, quasi irrilevanti direi, le flessioni insite alle riprese) anche al buio (ove nel dvd erano, invece, sensibili i cali di definizione nei frangenti meno luminosi) nonché per il dettaglio che ti consente di scorgere particolari (alcuni piuttosto rilevanti, nell’economia del film) scarsamente percettibili o impercettibili nel dvd. Credo che il master utilizzato sia quello precedentemente ritoccato nella splendida (abbastanza recente) edizione inglese a 2 dvd Optimum World Realise (che possiedo) e (anche se non ho riscontri diretti) che dovrebbe essere stato adoperato anche in dvd Usa. Il video, tenuto conto che non puoi vedere razor ciò che non lo é dai materiali d’origine, a mio avviso può essere considerato da riferimento e pietra di paragone per altre edizioni hd di film d’analoga consistenza del girato.
Audio: di buona fattura (con dialoghi perfettamente udibili) quello italiano ma quelli originale inglese e francese mi sembrano ben più forti (quasi fossero stati vitaminizzati) e più armonici nel mixare voci e suoni: ma, devo dire, probabilmente potrebbero essere le scelte di doppiaggio ad avere determinato tali differenze tra l’audio italiano e gli altri due presenti (riferirò, spero presto, dopo una visione con audio originale sottotitolato in italiano avendo a campione già notato qualche libertà di troppo da parte dei doppiatori nostrani).
Extra: corposi, molti inediti (editati nell’anno corrente), tutti utilissimi ed estremamente interessanti con particolare riguardo all’ultimo di essi “ritornando su Mulholland Drive” in cui il critico francese (con notazioni da me pienamente condivise alla lettera) fornisce una chiave interpretativa completa ed analitica (che, reputo, andrà bene a quasi tutti gli spettatori) verificandone l’attendibilità (con successo) analizzando (con le immagini di riferimento) i celeberrimi “10 indizi” forniti da Lynch e dal regista indicati quali fondamentali per comprendere appieno il film.
Difetti: a voler cercare il pelo nell’uovo, per onestà intellettuale, tre mancanze di quest’edizione:
l’ottimo menù (unico autorizzato da Lynch) in scene pigiando su oggetti che appaiono in 2 distinti riquadri è fenomenale ma (rispetto all’edizione a 2 dvd Uk, prima citata, ove tale menù è a schermo pieno) qui appare ridotto in ampiezza rispetto all’intero schermo;
manca l’extra, breve ma interessante e presente in entrambe le 2 edizioni italiane in dvd, della premiazione a Cannes del film con la Palma d’Oro ad ez aequo;
infine, contrariamente alle 2 edizioni italiane in dvd, la canzone “Llorando” della Del Rio nel Club Silencio (dal testo essenziale nell’ermeneutica del film) non è sottotitolabile nelle varie opzioni presenti nel bd di cui trattiamo.
Superfluo forse a questo punto, ma è giusto sottolinearlo a scanso d’equivoci, è un acquisto d’obbligo e con un’ottima confezione da imitare."
Qui l’immagine di una delle location di Los Angeles,in notturna, tra le più suggestive: :rolleyes:
e qui una foto, fuori scena, delle splendide protagoniste:
Ho rivisto oggi il film nel bd Universal e la scena lesbo non mi sembra modificata in nessun modo.Per quel che riguarda il film,beh c’è poco da dire,il tempo passa,le (re)visioni si accumulano,ma non perde neanche uno spillo del suo fascino e della sua bellezza.
E poi,minchia,ma quanto caxxo è bella Laura Harring???:swoon::ipsazione
io lo vidi al cinema e la scena lesbo mi sembrava molto meno all’acqua di rose rispetto a come compare nel dvd… Appena posso provo a verificare il pilot cut per verificare se la sequenza c’è e com’è.
Il film che mi ha fatto trasformare come per magia da detrattore di Lynch in fan accanito… mi è sembrato, per la prima volta da spettatore, di vivere e vedere un sogno ad occhi aperti. Semplicemente meraviglioso. L’incipit, con quella straordinaria ost di Badalamenti mi fa venire la pelle d’oca ogni volta. Che bello!
In attesa che gionnibbì verifichi fotogramma per fotogramma il “pilot cut” per controllare se i peli sulla topa della Harring ci sono tutti o se magari ne è caduto qualcuno (vergogna!), mi sono rivisto il film in dvd dopo anni ed anni.
Mi è piaciuto più della prima volta, anche se rimane qualche perplessità di fondo nelle tante, troppe stranezze che Lynch ha inserito nella narrazione: su tutte i due vecchietti dell’aeroporto che ritornano come fantasmi nel finale, terrorizzando Diane… scena quasi comica.
In ogni modo c’è un grande fascino in questa narrazione non convenzionale, che chiaramente si presterebbe ad interpretazioni di vario tipo. Io preferisco non approfondire troppo la questione Betty/Diane, che poi non è l’unica del film.
A prescindere dalla bravura e bellezza delle protagoniste, lo considero un discreto fallimento. E insieme a “Strade perdute”, l’inizio del declino di Lynch. Immagini fini a sè stesse, trama non pervenuta, gran compiacimento del proprio ermetismo. “Una storia vera” a tutt’oggi è l’ultimo VERO film dell’autore yankee. Nonché (in coppia con “Velluto blu”) il suo capolavoro.
Sono anni che non lo vedo, ma adesso gli concedero’ un’altra possibilità. Ho appena preso la nuova edizione Criterion, qui a Boston. Potrei cambiare idea, o confermare le mie perplessità. Magari fra 10 anni farò lo stesso con “Inland empire”, che peraltro ho retto solo i primi 20’…
Rivisto. Elegante esteticamente, e con alcuni (pochi) momenti di suggestione e fascino. Ma quello che a suo tempo, vedendolo in sala, poteva essere considerato “tipicamente lynchano” ora è solo ridicolo e/o irritante. Tremenda quindi la scena coi fratelli mafiosi che incontrano il regista, col più vecchio (interpretato dal musicista Angelo Badalamenti) che sputazza il caffè nel tovagliolo. Il killer nell’ufficio che combina un disastro dopo l’altro? Forse aspirava ad imitare l’Hitchcock de “Il sipario strappato”, mentre in pratica è uno sketch stile “Una pallottola spuntata”. Non parliamo poi delle protagoniste che vanno in giro ad indagare: goffaggine e imbarazzo a go go. Ma quando scopano e si spogliano, effettivamente, danno ancora soddisfazioni, indi almeno su questo grazie al regista (ma che squallida ipocrisia perbenista la sua, l’“oscuramento” del pube!). Concludendo: due-tre momenti riusciti non bastano a salvare oltre 140’ di compiaciute pippe mentali. Delusione cocente, quindi.
P.S. A parziale discolpa, si può rammentare che il progetto nasceva come pilota di una serie tv. Ma se le premesse erano queste, meno male che è stata abortita. Non sarebbe certo diventata una nuova “Twin peaks”…