P'tit Quinquin - Li'l Quinquin (Bruno Dumont, 2014)

Bruno Dumont non è un regista allegro, ma serioso, alcuni direbbero pesante. Per dirla con Roger Ebert:

Bruno Dumont is that French director your friends have warned you about. His characters pontificate about God, death, and evil between being violated and subjugated. He shoots through a lens filter called “abject Gallic misery.” Christ-figures abound and they’re mortified enough for three crucifixions. He’s been mixing Tod Browning, Catherine Breillat and Carl th. Dreyer for over fifteen years and until recently he had but two settings: beautifully troubling and unbearably bleak.

Immaginate quindi che il nostro faccia una serie satirica, ambientata nella terra degli Ch’tis, per la precisione tra Cap Griz Nez & Cap Blanc Nez, casette bianche col tetto rosso, scogliere, spiagge infinite, bunker nazisti della seconda guerra mondiale. Posti assurdi come Wissant, che quando ci arrivi venendo dall’inferno di Sangatte pensi di esserti fumato qualcosa di peso vedendo un palazzo egizio che non stonerebbe in Myst, ed invece è un signorotto locale con la passione per i faraoni:

E quindi, in questo luogo bellissimo e assurdo ci sono dei delitti, e personaggi che paion presi pari pari da Calvaire, e che sono tutti attori dilettanti. Insomma, un bel trip, ma assolutamente da vedere.

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a me dumont che fa di tutto per essere il più ieratico di sempre non è mai piaciuto. so però di una sua seconda fase, diciamo più sbroccata e farneticante, che quasi esautora la prima in cui sembrava goderci a dover dimostrare di essere il più pesantone e stopaccioso di tutti. mi sembra di capire che questo lavoro rientra appieno nella seconda, forse la inaugura.

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in ogni caso 3 ore e mezzo di dumont mi suonano come qualcosa che ti fa venire voglia di buttarti da una rupe con la smart tv al collo.

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In realtà se ho ben capito è un prodotto televisivo in tre parti che è stato poi condensato in una mattonella da tre ore e passa per una successiva uscita cinematografica.

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Direi più che é l’anello di congiunzione tra le due fasi : ci sono molti elementi della prima con una descrizione ieratica della campagna, grottesca dei suoi abitanti e una fascinazione per dei gesti umani incomprensibili (in questo caso, i delitti come nel radicale L’Humanité), ma anche una nuova vena più assurda e burlesca che fa capolino per la prima volta nella sua filmografia.

Con il successivo Ma Loute, si passa decisamente alla seconda fase della sua carriera.

A mia conoscenza, é una produzione Arte che é stata presentata al festival di Cannes e ha quindi goduto delle classiche proiezioni speciali riservate ai film della Quinzaine des réalisateurs, ma a parte cio non é mai uscito in sala.


Detto questo, per me é una delle sue opere migliori : non la trovo affatto noiosa ed un po un compendio delle sue ossessioni artistiche e stilistiche, con questa inaspettata apertura verso nuovi orizzonti.

Stra-consigliato ! (ma recuperatelo con dei sottotitoli perché i personaggi parlano in un modo che é difficile capirne i dialoghi anche per dei francesi madrelingua)

P.S.: la seconda stagione invece é orribile! (con degli insensati elementi extra-terrestri e delle gags ripetute veramente tediose)

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Esatto, proprio così. Comunque è spassosissimo, ma non ho visto altro di Dumont.

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ti sfido ad arrivare alla fine (o anche solo a metà) dei primi due pensando “è spassosissimo”. due tirannosauri appesi ai coglioni senza precedenti.

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In effetti, il termine “spassosissimo” associato a Dumont non me lo aspettavo :smile:

Però, non concordo molto neanche con la noiosità dei suoi primi film :

  • La Vie de Jésus ha uno stile documentarista e l’ho sempre trovato un pò pretenzioso, ma non é più lento di un qualsiasi film taiwanese :grin:
  • L’Humanité beneficia della ripetitività e del torpore di un villaggio nel Nord della Francia per meglio insinuare dei momenti di grazia o di orrore; alla prima visione non lo avevo apprezzato molto, ma nel mio caso é un film che cresce col tempo e la riflessione

ma concordo con il successivo Twentynine Palms che ritengo piuttosto noioso (tranne il bel finale)

mentre Flandres, passato abbastanza in sordina e in generale poco amato dal pubblico, per me é quasi un capolavoro nel sublimare quanto di buono era già presente in L’Humanité : molto in comune con l’ottimo Brothers (2004), ma con uno stile dumontiano ormai riconoscibile e più consapevole.

e un pò la serietà di un tempo mi manca quando incappo in cose del genere:

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a me l’humanitè aveva stecchito già entro mezzoretta. poi davvero di una boria da schiaffi. 29 palms per lo stesso motivo fa salire la carogna. irritantissimo. ma in generale quest’ansia di epater ma tenendosi il più possibile ieraticamente autoriale, che si ravvisava anche nell’esordio, mi dava ai nervi già dopo pochi minuti. tutto quanto venuto dopo saltato a piè pari. avevo in casseruola hors satan in cui a detta di molti j’è partita la ciabatta inaugurando una nuova fase più approcciabile e diciamo così vivibile, ma la durata-monstre associata al suo nome mi ha sempre frenato.

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