Nella costruzione cinematografica del personaggio di Fitzgerald/Tom Hardy si nasconde, quasi con timore, quello che “The Revenant” avrebbe potuto essere.
Fitz non si vergogna di essere pratico, spietato, meschino.
Fitz non sogna, non cerca di elevare una vita che è solo lotta senza ideali. E’ lui il vero sopravvissuto.
Inarritu invece sembra intimorirsi di fronte all’idea di girare un semplice film d’avventura, come se il genere tout court fosse qualcosa di cui non essere fieri. E così, per inseguire un’autorialità che sembra una condanna più che una necessità, affossa il film con sequenze oniriche di rara grossolanità. Inserti da Piccolo Grande Uomo-vorrei ma non posso mescolati ad uno stile che ricorda un imitatore di Malick che copia Sokurov che pensa a Tarkovskij.
Eppure nell’assalto indiano iniziale così come nella penultima inquadratura della macchia di sangue sulla neve (chiusa efficace vanificata da una superflua e insostenibile ennesima visione del protagonista) a me è sembrato di scorgere il ritorno di un cinema commerciale finalmente adulto. Un cinema capace di combattere e di sopravvivere in una realtà ridotta all’infantilismo di supereroi, di guerrieri stellari, di pugili da fumetto che sono gli eterni ritornanti di un intrattenimento eviscerato.
A “The Revenant” si sarebbero potute perdonare anche le inverosimiglianze legate al percorso del protagonista, perchè nell’avventura più lontana ed epica si annidano momenti diventati leggendari proprio in quanto impensabili. Ma solo quando l’avventura non si imbarazza di fronte alla propria natura.