The long walk (Francis Lawrence, 2025)

in attesa di vedere cos’hanno combinato col reboot de l’uomo in fuga (che nella sua prima edizione letteraria italiana era conglobato con la lunga marcia in un solo tomo), anche la lunga marcia, dopo un bruttissimo criptoremake (così brutto che mi sfugge pure il titolo) e un paio di pre-produzioni andate a remengo, viene traslato su schermo con risultati che boh, devo ancora capire se sono convincenti o no ma propenderei più per il no. come sempre king al cinema è più difficile da maneggiare di un pacco di nitroglicerina e l’impressione finale è che forse da un libro come quello non si poteva davvero distillare qualcosa di diverso da quanto qui compiuto.

dico forse perché il progetto è stranamente sfuggito di mano a tipetti come romero, ovredal e soprattutto darabont che è l’unico tra i registi recenti a vincere per distacco sulle cinetrasposizioni del re azzeccandone sempre il tra le righe e che, sempre forse, rispetto al pur diligente lawrence, avrebbe potuto fare il quasi miracolo. dico di nuovo forse perché il libro, narrato tutto in prima persona con deraglianti flussi di coscienza e considerazioni introspettive su vita morte vendetta sacrificio destino totalitarismo cameratismo bullismo e chi più ne ha s’accomodi, non era un cazzo facile da trasformare in gittata filmica.

non che lawrence abbia combinato un pasticcio, anzi, ma non si sente granché l’essenza di king nell’opera e nel passaggio alla narrazione neutra corale (le correlazioni attoriali sono forse la cosa migliore), ma il meccanismo va per automatismo e prevedibilità (non si ha un mezzo dubbio su quali personaggi cadranno sul campo di scena in scena, perché non si fa alcunché per dissimularne gli handicap), è umoralmente anaffettivo e ben poco teso e tetro, i colpi bassi sono pochi, non si sente davvero lo sporco il sudore la fatica le lacrime la demolizione del percorrere 300 e fischia km senza uno stop (che sulla pagina emergeva invece a ogni paragrafo) e soprattutto il villain è una macchietta immatricolata elevata a gigioneria. e poi ci sono le licenze arbitrarie, su tutte il finale stravolto per necessità di quadra narrativo (nel libro era aperto e più ambiguo). insomma un bel compitino ma una a caso delle gare a esclusione cui ci hanno abituato film come 13 beloved, 13 tzameti o squid game e alice in borderland gli scola la pasta sul pube. ecco, fosse stato fatto prima di tutta la febbre dei viteinpalio-movies avrebbe colto maggiormente nel segno. e soprattutto, ok, risultato portato a casina bella, ma king?!

capiamoci, non è brutto e si fa vedere (dura due ore piene e non si accusa un minuto) ma per quanto mi consta nel novero delle più riuscite cine-traduzioni di stefano non ci entra proprio.

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Uscito negli States, certo. Ma è previsto pure da noi?

non ne ho idea, ma trovarlo si trova. quasi certamente finirà piattaformato, anche perché il format sembra proprio quello netflix, ovvero prodotto estremo e cattivo ma pastorizzato per la larga scala spettatoriale.

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