direi che il gemellaggio in tal senso c’è proprio tutto, molecola per molecola e gamete per gamete. è davvero strickland al suo peggio che in attesa di rinnovata ispirazione si specchia nelle unghie dei propri alluci, e che nel riprendere l’ossessione per il suono granulare di berberian sound studio e quella scatologica che già contornava in fabric (due affondi di ben altro filo di bisturi, anche formale), con gli outfit settecenteschi e rimasticature hegeliane di burgundy di riporto, ingessa tutto quel che si muove e di cui tratta, più interessato allo straparlare che al mostrare o al sottotracciare. a farne le spese sono proprio la fisiologia e la matericità, che in un’opera come questa dovrebbero dettar dispoticamente legge come in un live-act di via negativa o della prima fura dels baus: le verbalizza, le concettualizza, le cerebralizza fino all’ultimo fotogramma, rendendole rarefatte o dei sofismi teoretici mantecati con snobismo estetico hipster di chi si è laurato al dams con tesina sulla body art e la cantilena patriarcofobica che ha davvero sfracellato ogni micron di gonadi e facendo passare lo slancio estetico per la cruna psicoanalitica in nome di un’agognata catarsi, sempre e comunque aggrovigliandosi in sbrosce dialogiche che paiono un simposio di eco bombato di ketamina. peggio di così. e ripensando ai minuti finali, vien davvero voglia di farglieli rivedere 24/7 tipo cura ludovico per fargli capire come andava impoostato almeno metà film. speriamo che al prossimo giro si dia una bella riaggiustata.
sul fronte foodhorror, di chilometrica lunga meglio virare verso menù o el hoyo, che almeno là qualche bistecca al sangue si addenta.