Flux Gourmet (Peter Strickland, 2022)

Un collettivo noise “gastronomico” ottiene una residenza presso il Sonic Catering Institute (la Sonic Catering Band fu il gruppo noise nel quale ha militato il nostro furbacchione) e si esibisce in performance sonico-culinarie di grande appettibilità per uno stuolo di arrapatissimi connoisseurs.
Il gruppo è nel frattempo intervistato da un giornalista che li segue nelle diverse esibizioni, uomo dimesso e piagato da molteplici problemi gastro-intestinali, meteorismo e reflussi gastrici (egli stesso poi diventa parte di un numero avantgarde sottoponendosi a gastroscopia e colonscopia pubbliche con l’ausilio del sadico gastroenterologo/viveur Dr Glock) mentre dissidi interni fra le file del collettivo e frizioni con il curatore dell’istituto portano alla disgregazione della band.

Bizzarro ibrido tra satira e mistery, più che un film è una sorta di sfrontatissimo esercizio di stile, smorgasbord sensoriale che ripropone, tra i vari temi, i feticci dell’autore inglese per le deviazioni e parafilie relative alle funzioni corporee fisiologiche (in questo abbiamo la coprofilia, in Duke of Burgundy c’era l’urofilia) e dal punto di vista meramente tecnico l’assolutà preponderanza e priorità del sound design.

Forse più curioso che risolto come film, Strickland omaggia sì con sfrontatezza il mondo della performance art (avendone anche fatto parte…) ma il dileggio (se c’è) è sempre tenero, mai caustico e nonostante le innumerevoli allusioni scatologiche è estremamente formale e contenuto.
per questo mi ha ricordato la “propaganda escapista” citata da Cronenberg nel suo ultimo capolavoro (anche se qui i poliziotti non sono infiltrati tra i performer ma partecipano alle orge nel backstage) ma forse soprattutto per la sottotrama sulle afflizioni gastroenteriche del narratore giornalista ho ripensato a Crimes of the future, dico la verità…

lo stesso Strickland è stato interpellato su questa curiosa somiglianza in una bella intervista su slant magazine (dove cita anche il giapponese Tampopo)

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direi che il gemellaggio in tal senso c’è proprio tutto, molecola per molecola e gamete per gamete. è davvero strickland al suo peggio che in attesa di rinnovata ispirazione si specchia nelle unghie dei propri alluci, e che nel riprendere l’ossessione per il suono granulare di berberian sound studio e quella scatologica che già contornava in fabric (due affondi di ben altro filo di bisturi, anche formale), con gli outfit settecenteschi e rimasticature hegeliane di burgundy di riporto, ingessa tutto quel che si muove e di cui tratta, più interessato allo straparlare che al mostrare o al sottotracciare. a farne le spese sono proprio la fisiologia e la matericità, che in un’opera come questa dovrebbero dettar dispoticamente legge come in un live-act di via negativa o della prima fura dels baus: le verbalizza, le concettualizza, le cerebralizza fino all’ultimo fotogramma, rendendole rarefatte o dei sofismi teoretici mantecati con snobismo estetico hipster di chi si è laurato al dams con tesina sulla body art e la cantilena patriarcofobica che ha davvero sfracellato ogni micron di gonadi e facendo passare lo slancio estetico per la cruna psicoanalitica in nome di un’agognata catarsi, sempre e comunque aggrovigliandosi in sbrosce dialogiche che paiono un simposio di eco bombato di ketamina. peggio di così. e ripensando ai minuti finali, vien davvero voglia di farglieli rivedere 24/7 tipo cura ludovico per fargli capire come andava impoostato almeno metà film. speriamo che al prossimo giro si dia una bella riaggiustata.

sul fronte foodhorror, di chilometrica lunga meglio virare verso menù o el hoyo, che almeno là qualche bistecca al sangue si addenta.

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Che film!

Ciao!
C.

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