coperta con ampia soddisfazione anche la quarta stagione, sebbene certe coordinate inizino quel pelo a essere ricorsive e ripetitive - una su tutte: la coscienza trasferibile in realtà virtuali o sliding door alternative, peraltro non proprio un’idea letterariamente e cinematograficamente nata negli anni 10’, che vara l’episodio apripista uss callister, riproponendo ascisse e ordinate di tron e facendo di trigonometrica virtù citando la startrekosfera, con despota/villain protagonista il jesse plemons della quinta stagione di breaking bad (todd, anyone?), qui paurosamente inquartato e fintamente paciocco. sempre da BB ritroviamo anche aaron paul prestavoce. carino forte ma lontano dalla nequizia che prende corpo dal secondo episodio in poi.
si prende infatti una pericolosa quota da iperossemia con arkangel (firmato da jodie foster nientemeno), dove la neurotrasmettività viene sfruttata per una sorta di olistico parental control da parte del genitore apprensivo, con annesso brusco rovescio della medaglia che sarà, nemmen dirlo, da tragenda di quelle brutte andante.
crocodile è del lotto l’episodio più tetro spietato e nero di una notte senza stelle, quelli per i quali king ghidorah spegnerebbe prima di poter dire cha cha cha. qua la coscienza inscatolata e virtualmente teletrasmessa è a benefico uso detection per risolvere truffe assicurative, ma finirà con lo scatenare un domino di decessi à la fargo della serie volontà contro destino + non voglio uccidere ma devo assolutamente, e senza un milligrammo dell’umorismo dei coen, che non risparmia neanche i neonati. davvero una botta paurosa che per un po’ di tempo a ultimata visione ti resta addosso come la rogna.
la romance section giunge con hang the DJ, che rivoluziona tinder e le app di incontri così come le abbiamo conosciute finora, forzando gli iscritti a enne storie random con impostazione temporale preordinata e a vivere la vita prigionieri della ricerca coartata dell’anima gemella perfetta, rendendo più profumata la rosa che non si è potuta cogliere. è l’episodio con più evidente sensibilità femminile, quindi immaginate che sorpresona saperlo diretto da timothy “stegman” van patten (del resto non nuovo alla regia di serie tv e qui davvero in superbolla)
il quinto, metalhead, è adrenalina a tracimanti fiumi: 41’, 35 dei quali a tutta azione e macelleria non necessariamente ancillari a un messaggio. si discosta dal fil rouge della coscienza trasferellata e anche della più o meno larvata critica tecnofobica a favore dell’avvenimento puro. che tradotto significa una sorta di enorme zecca di silicio animatronica a cavallo tra terminator e predator pressoché indistruttibile, che prende d’assalto e cinge d’assedio un manipolo di sciacalli alla mad max che tentano di appropriarsi di una scatola il cui contenuto, rivelato nel solo finale, lascerà basiti. anche in questa pillola di cianuro in bianco e nero possiamo da subito fare ciao ciao con la manina a ogni sfumatura di speranza.
si chiude come di consueto con l’episodio king size che sono praticamente tre storie in una, o meglio due storie che sommate daranno vita alla terza, con l’escamotage del museo degli orrori a fare da wraparound. gli orrori de quo sono quelli che abbiamo già conosciuto negli allora avvenirismi di brainstorm, strange days e dreamscape: inizialmente vengono convertiti in esprit barkeriano (col dolore che diventa una faccenda edonistica da neocenobiti), quindi in qualcosa che pare il punto di scontro tra solaris e linea mortale e infine in sadismo a gettone (e non dico altro per evitare spoiler, dico solo che sarà impossibile non pensare per almeno un istante a sotto shock). nella terza tranche purtroppo si fa largo a gomitate la prevedibilità del twist, ma pazienza, è comunque strutturato e scritto da semidio e si scivola sull’olio.
vediamo se la quinta si tiene sempre su questi encomiabili livelli.